Orazio Arancio è stato tra i giocatori di rugby più significativi della “sua” Sicilia, arrivando ad indossare per 34 volte dal 1993 al 1999 la maglia della Nazionale Italiana. Oggi, il suo impegno continua come dirigente sportivo e federale, con particolare attenzione al rugby a sette.
“Magari non sempre è facile percepirlo, però, in questo ambito ci stiamo muovendo molto. Non è facile sicuramente creare un gruppo forte in un contesto dove non si gioca questa disciplina o si gioca poco. Sarebbe inutile fare investimenti importanti, dove non si pratica questo sport, perché di fatto il rugby a sette è una disciplina diversa da quello a quindici. Adesso sembra che sull’onda del grande interesse generato dalle Olimpiadi, diverse realtà stiano iniziando ad apprezzarlo e ad interessarsi”.
Sinora comunque i progetti non sono mancati.
“Da parte mia, ho voluto lavorare molto soprattutto con i Comitati Regionali ed altre strutture dove poteva essere possibile, come le Accademie. Avrei voluto che fossero più coinvolte anche realtà che magari finiscono prima i propri tornei e quindi possono svolgere l’attività Seven nel momento ideale di fine stagione, tra maggio, giugno, luglio. Penso alle varie formazioni Under 18, ma perché no pure Serie B o C. Questo avrebbe importanti ripercussioni. Intanto dal punto di vista tecnico, dove ormai è palese l’utilità del Seven per migliorare capacità atletiche e abilità. Ma poi, ci sarebbe una forte motivazione sociale. Un torneo a sette viene giocato da più squadre sullo stesso campo e non mancherebbero occasioni per socializzare e condividere la nostra passione per questo sport. Purtroppo sappiamo che spesso queste idee vanno a scontrarsi con la mancanza di risorse, che è il vero scoglio da superare”.
Quali iniziative sono previste quindi per incentivarne la pratica?
“Come dicevo, è aumentato l’interesse in questo momento, grazie ai Giochi Olimpici e ora vedremo se avremo un riscontro effettivo nei prossimi mesi. Stiamo continuando ad organizzare da anni corsi per allenatori. A Parma ne abbiamo svolto uno con successo e con la richiesta di partecipazione anche di sette tecnici provenienti dalla Germania, perché l’Italia è tra le poche nazioni ad organizzare corsi simili ed in questo devo dare grande merito al nostro allenatore Andy Vilk. Purtroppo, però, il vero passo da compiere è una prospettiva culturale diversa nella visione che nel nostro Paese abbiamo del rugby a sette. Da parte nostra, le iniziative sicuramente non mancano. Stiamo lavorando molto con le Accademie, dove il Seven aiuta molto a migliorare le skills. L’obiettivo in questo caso è duplice. Da un lato la volontà di, per così dire, insegnare rugby, migliorando i gesti tecnici, dall’altro anche quello di capire le potenzialità dei ragazzi e valutare su quali poter investire per il futuro. Il rugby a quindici è la naturale riserva per la palla ovale italiana ed è giusto che sia così. Magari, però, non tutti vi sono adatti e allora poter scovare giocatori più adatti al Seven già verso i quindici, sedici anni, sicuramente può aiutare nella crescita. È un po’ quello che stiamo facendo anche con la Nazionale, considerando che negli ultimi tour, su quindici giocatori, ben undici erano esordienti. I ragazzi di qualità in Italia non mancano e, nonostante le critiche, i progressi si vedono. Spesso parliamo di ragazzi che fanno sacrifici enormi, che non vanno in vacanza, che stanno lontani dalle famiglie, e tutto solo per potersi preparare al meglio”.
Cosa manca dunque per pensare di competere al livello delle formazioni top?
“Manca la possibilità di giocare, di confrontarsi e un vero legame tra le realtà dei nostri Campionati ed il Seven. Il movimento, però, sta arrivando anche a questo. Bisogna iniziare a lavorare adesso per pensare sì alle prossime Olimpiadi, ma pure in un’ottica di una possibile futura candidatura italiana. Qualcosa si sta muovendo. Stiamo, ad esempio, parlando con alcuni club della possibilità di istituire tornei che possano contribuire ad allargare la base e anche a migliorare i rapporti di collaborazione tra le società attraverso prestiti tra club limitrofi. Ci piacerebbe provare anche a portare una tappa del circuito europeo in Italia”.
I modelli da studiare non mancano.
“Non sempre i modelli importati da altri Campionati, come la Premiership inglese, necessariamente possono funzionare da noi, visto che abbiamo caratteristiche completamente diverse dal punto di vista socio-culturale, ma anche per impiantistica e quant’altro. Nel nostro piccolo ci stiamo muovendo e stiamo cercando di portare avanti questo progetto. Il Giappone è arrivato di recente quarto ai Giochi di Rio, in un’ottica di prospettiva verso le Olimpiadi di Tokyo nel 2020, ma ha fatto investimenti notevolissimi e potuto sfruttare pure le naturalizzazioni di più atleti. Un altro modello da osservare è quello spagnolo, ma anche qui parliamo di una realtà che investe nel Seven da almeno quindici anni e che ha posto quello come obiettivo primario nella propria attività rugbistica. Fanno da contraltare altre che hanno investito moltissimo, come ad esempio la Russia, la Germania o l’Irlanda, che però non sono riuscite a qualificarsi”.
Nell’attesa, però, un grande torneo italiano esiste da vent’anni.
“Le volte che sono stato al Torneo Petternella, devo confessare che mi è sempre piaciuto moltissimo. È un torneo di qualità. Un appuntamento immancabile e di grande rilievo nel nostro panorama, ma probabilmente tra i più importanti a livello europeo. Sono stato ad altri tornei in Europa e spesso non ci sono gli stessi numeri del Petternella. Consentimi con l’occasione di salutare Gisella ed Enrica e ringraziarle per quanto fanno per il rugby femminile, a sette e non solo”.