Padova, Roma, addii e ritorni. Maurizio Montalto si racconta. ‘La mia vita con le Fiamme nel cuore’

Nel 1956 c’erano solo Drop e Meta. Abbaiavano e scodinzolavano ai piedi del loro padrone. Non c’erano campioni d’Italia. Non ancora. Nessun Nazionale. Nessuna maglia. Ma solo la passione che Gaetano aveva deciso di trasformare da idea in progetto. Da sogno a realtà. Lui, Gaetano Genco (foto Polizianellastoria.it), Comandante della Polizia di Stato sopravvissuto a un campo di concentramento keniano tra il 1941 e il 1946 aveva due grandi amori. Il rugby e suoi cani. Tanto profondo il primo da avvolgere anche il secondo. E i nomi dei due piccoli compagni di vita. Fu proprio lui a cominciare a scrivere il primo capitolo delle Fiamme Oro Rugby. Una storia iniziata a Padova e che ora continua a Roma. Un’avventura che avrebbe narrato di battaglie, tricolori, vittorie e – certo – anche sconfitte. Una trama dove hanno conosciuto risalto anche le gesta dell’ex presidente Maurizio Montalto, storico protagonista delle Fiamme dei due mondi.
Generale, segue il cammino delle Fiamme Oro anche dagli Stati Uniti, dove vive?
‘Certo, con molto interesse. Sono sempre un grande tifoso dei cremisi’.
Un giudizio dunque sulle Fiamme attuali.
‘La società è ben solida e c’è un buon seguito di pubblico. Inoltre, accanto all’attività sportiva c’è una grande attività benefica e dedicata ai più giovani che fa grande onore ai colori cremisi e alla Polizia di Stato. Da tifoso provo una grande gioia nel vedere le Fiamme Oro tornate protagoniste nella massima serie’.
Le Fiamme odierne sprigionano lo steso calore delle sue Fiamme?
‘Ai miei tempi il poliziotto era la figura impiegata nelle piazze per problemi di ordine pubblico. Oggi è diverso. La Polizia ha un risalto differente nella vita quotidiana delle persone e l’aspetto sportivo è importantissimo, a livello umano e di integrazione nella vita civile del Paese’.
A cosa è dovuto questo cambiamento?
‘Un’importante opera diplomatica affrontata negli anni dal dottor Forgione. Alti funzionari della Polizia sono intervenuti nel tempo grazie al lavoro del presidente’.
Tre anni fa è nata una discussione tra lei e il presidente Forgione con Presutti come oggetto del contendere.
‘Sì era nato uno scambio di vedute in merito al coach. Ma tutto per il bene che entrambi vogliamo alla società e alla maglia’.
Quali le differenze maggiori tra le ‘sue’ Fiamme Oro e quelle attuali?
‘Oggi vengono reclutati giocatori che hanno già una specifica preparazione rugbistica e un background ovale. Ai miei tempi si ‘prendevano’ giocatori anche da altre discipline, come il lancio del peso, l’atletica, il canottaggio. In più c’è una differenza sostanziale…’.
Sarebbe?
‘Il servizio di leva era obbligatorio. E molti ragazzi sceglievano le Fiamme Oro, così da poter continuare l’attività sportiva e ricevere un guadagno in qualità di Guardie di Pubblica Sicurezza. Uno dei più famosi è stato Alfio Angioli (8 caps con l’Italia), marinaio che praticava canottaggio e diventato poi un punto di forza delle Fiamme insieme a Lello Levorato’.
Da protagoniste nel mondo del rugby nazionale all’addio. Gli anni ’80 sono coincisi con la fine delle prime Fiamme Oro.
‘In seguito a una decisione presa dall’allora Ministro dell’Interno le Fiamme giocarono l’ultima partita a Reggio Calabria e poi cessarono l’attività. 22-0 per noi…’.
Quanto riprese il tutto?
‘Qualche anno dopo, grazie a un’iniziativa del Comandante del Reparto Mobile di Milano, Pichetti. Le Fiamme si iscrissero al campionato di Serie C, vinto dopo due stagioni’.
E così riprese la storia.
‘Non senza difficoltà. In Serie B, la squadra venne trasferita al Reparto Mobile di Roma. Non era un team popolare e il campionato non stava andando poi così bene…’.
E da qui lei rientra in scena…
‘Mi richiamò Pichetti. Era la fine degli anni ’80. Per me le Fiamme Oro erano quelle di Padova, ma al cuor non si comanda e andai a Roma. Ci salvammo e pian piano iniziammo nuovamente la risalita, fino alla Serie A’.
Generale, quale tassello manca alle Fiamme per competere nuovamente per il tricolore?
‘Penso alla longevità dello staff tecnico. Negli ultimi quattro anni sono cambiati tre allenatori’.
A impreziosire lo staff ora c’è anche Massimo Mascioletti.
‘Persona squisita e grande uomo di rugby. E’ ciò che mancava, un grande valore aggiunto, anche sotto l’aspetto psicologico. Nel tempo il lavoro di Massimo darà i suoi frutti e il merito di averlo tra noi è senza dubbio del dottor Forgione’.
Oggi, complici anche le poche sicurezze che offre il rugby moderno, i giocatori vedono l’opzione Fiamme anche come occasione di stabilizzarsi, sia dal punto di vista economico che lavorativo. Cosa ne pensa?

‘Credo che ci sia chi ragiona con il cervello, chi col cuore. E chi con nessuna delle due cose. Nel tempo è nata un’associazione di ex giocatori delle Fiamme Oro con il motto ‘Figli di nessuno. Figli solo del Generale’. Il salto di qualità è avvenuto negli anni grazie al fatto di sentirsi parte di qualcosa, un qualcosa di unico. Non certo grazie a uno stipendio’.
E’ ancora in contatto con i ‘suoi’ uomini?
‘Certo! Ancora oggi ricevo messaggi da moltissimi dei miei ragazzi.  In occasione di un raduno li ho guardati negli occhi dicendogli: ‘Vi devo ringraziare, perché voi mi avete insegnato il rugby’. Ricordiamoci che il nostro sport è un modo di vivere. E’ una filosofia di vita. Sostegno, aiuto per chi è in difficoltà. Chi lo capisce e lo mette in pratica fa una grande cosa. Chi pensa che il rugby sia solo uno sport non ha capito nulla’.
Maurizio, un sogno che ancora culla per la maglia cremisi?
‘Mi piacerebbe tanto vedere nuovamente il tricolore sul petto’.

(foto sito Fiamme Oro Rugby)

 

A tu per tu con Mirco Bergamasco, Rocky Balboa azzurro. ‘Un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta’.

Come un libro di avventure. O, citando le sue stesse parole, come un film di Rocky Balboa. La carriera di Mirco Bergamasco riserva sempre sorprese. L’ascesa in Italia. L’affermazione in Francia prima e Nazionale poi. La caduta, grave e traumatica in azzurro e la ripresa in Eccellenza, grazie a Rovigo. Quindi, il viaggio a scoprir gli States e una nuova avventura azzurra, questa volta con il rugby league. ‘Sono un po’ come Rocky – sorride -, un passo alla volta…’. La nuova realtà dell’ex tre quarti azzurro si chiama Vicenza. La Serie A, per ora, è il suo nuovo ring. La passione, però, è quella di sempre. Pronta, ancora una volta, a trascinarlo verso una nuova ripresa…
Mirco, partiamo dalla volontà di vivere una nuova sfida con il Vicenza. Motivazioni?
‘Tutto è nato da un incontro con Fabio Coppo, direttore tecnico della Rangers Vicenza, che mi ha presentato Luigi Battistolli, presidente del Gruppo Battistolli. Insieme abbiamo parlato delle nostre idee, ambizioni, sogni e della possibilità di creare un bel progetto a Vicenza, zona ricca di passione’.
Dopo l’esperienza al Saluzzo è tornato al Rugby Union. Come mai questo ritorno al primo amore?
‘Ho iniziato a giocare a Rugby Union all’età di 6 anni e continuo a giocarlo oggi. Grazie ad Andy Vilk, nel 2015, ho avuto l’opportunità di vestire anche la maglia azzurra con la Nazionale Seven. Non ero stato chiamato in Nazionale, così ho scelto quella strada. Ho vissuto un’esperienza appassionante e ricca.’
Quindi States…
‘Sì, nel 2016. Negli USA stava iniziando il primo campionato professionistico di Rugby Union. Una bella esperienza al termine della quale sono stato nominato uno dei migliori tre giocatori della lega’.
Al rientro in Italia, ecco il Rugby League.
‘Ero libero da tutti i contratti federali. Mi ha contattato la federazione Italiana di Rugby League per disputare le partite di qualificazione alla Coppa del Mondo. Come giocatore, amante e appassionato di rugby, non avrei potuto rifiutare quella sfida’.
E ora, nuovamente Union.
‘Di ritorno dalla Coppa del Mondo di Rugby League sono stato ricontattato da Luigi Battistolli con il quale abbiamo trovato una strada per finire la stagione insieme, a Vicenza’.
Come ha vissuto l’esperienza di Rugby League?
‘Mi ha insegnato molto a livello tecnico. E’ uno sport che si addice al mio carattere perché bisogna essere vivaci, rapidi di anima e di corpo e soprattutto opportunisti e di spirito libero, un po’ selvaggi e spregiudicati. E’ rugby giocato per 80 minuti, da squadra. E’ una ‘banda’ di compagni, ognuno con il suo carattere forte ma con la voglia comune di sacrificarsi per la maglia azzurra. Grazie a questo mi sono sentito subito a mio agio’.
Ha incontrato difficoltà ad ambientarsi a un rugby diverso in così poco tempo?

‘Sì, le difficoltà ci sono state ma la passione, il lavoro, la disciplina e l’aiuto dei compagni mi hanno aiutato a trovare subito solidi punti di riferimento’.
Contento dunque?
‘Molto. Il piacere provato ha ripagato tutto il percorso compiuto per raggiungere l’obiettivo’.
Quali sono ora le sue aspettative sportive?
‘Continuo a praticare il mio sport e godere di ciò che mi trasmette. Sono pronto a tutte le opportunità che si presenteranno. Come disse Rocky Balboa: ‘Un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta’’.
Ha avuto modo di farsi un’idea dell’ambiente biancorosso e dei progetti del club?
‘Sono appena arrivato, penso lo scoprirò nelle prossime settimane’.
Riavvolgendo il nastro della sua carriera, tra club e Nazionale, c’è una decisione che non riprenderebbe?
‘No. Da sempre, vivo la mia carriera con onestà, entusiasmo, rispetto e passione per il rugby di ieri, di oggi e di domani’.
Non vorrebbe rivivere niente diversamente?

‘No. Non sono un uomo di rimpianti, cerco sempre di avanzare’.
Un momento della sua vita che non dimenticherà mai.
‘Quei momenti passati da piccolo con i miei nonni nelle sagre di villaggio. A rifare il mondo’.
Come vive Mirco Bergamasco la quotidianità oltre al rugby?
‘In famiglia con Ati e i pelosi tra camminate e risate. Anche qui, continuiamo a rifare il mondo e costruire progetti’.
L’ultimo pensiero della giornata è dedicato a chi?
‘Non ci avevo mai pensato. Cercherò di scoprirlo stasera…’.
Se non fosse diventato un giocatore di rugby, Mirco, cosa sarebbe stato?
‘Sinceramente non lo so. Non riesco a non vedermi giocatore di rugby’.
Un capitolo – di vita o di carriera – che non ha ancora scritto…
‘Senza dubbio, ingrandire la famiglia’.

(foto sito Rangers Vicenza)

A tu per tu con Stefano Scanferla: una vita da ‘rimessa laterale’ per il gigante bresciano

La vita di Stefano Scanferla assomiglia a una rimessa laterale. Una di quelle che è lui è abituato a dominare. E’ una parabola che proietta velocemente in alto e al battito di un ciglio riporta con i piedi per terra. Un po’ come il percorso vissuto dal 26enne bresciano, lanciato nel rugby dei grandi poco più che adolescente. ‘Non dimenticherò mai il primo allenamento con il Calvisano di Delpoux. Avevo 17 anni ed ero circondato da tantissimi talenti’. Sollevato, quasi a toccare il cielo, per prendere il pallone e impostare una piattaforma che gli regalerà in giallonero gioie e scudetti. Poi però, eccolo toccare nuovamente il terreno quando, nel 2015, ha abbandonato il suo sogno calvino. ‘Non è stato semplice salutare. Era tutto quello che avevo’. Colpito ma non sconfitto, Stefano ha scelto la Francia come nuovo inizio. Fédéral 3, Rugby USAP 84 il club. Un capitolo intenso per l’avanti bresciano, interrotto poi da un anno di inattività. ‘Un altro momento difficile…’. A sollevarlo nuovamente è arrivato il Lumezzane che da quest’anno può contare su un campione d’Italia in più nel motore. Per Stefano, l’ennesimo nuovo inizio di una carriera sempre più simile a una rimessa laterale. Che però, questa volta, non ha alcuna intenzione di terminare toccando terra.
Stefano, partiamo da Calvisano. Otto anni in giallonero tra Serie A e scudetti. Ripercorriamo insieme tre momenti che non dimenticherà mai.
‘Ci sono parecchi ricordi piacevoli nella mia esperienza a Calvisano. Scelgo il primo allenamento con la prima squadra, a 17 anni. Quel team, allenato da Marc Delpoux, contava parecchi talenti del rugby italiano e non solo. Poi, la vittoria del campionato di serie A, nel 2011, che ci riportò nel rugby di alto livello e infine il mio primo scudetto, nel 2012, dove ero vice-capitano’.
C’è stato anche un momento poco felice?
‘Nel 2015, quando ho dovuto lasciare Calvisano e tutto quello che c’era intorno, il paese e gli amici. Quella squadra era la mia seconda famiglia’.
Come è vissuto il rugby nel bresciano, un’area rugbisticamente storica e che negli ultimi anni ha spostato nuovamente gli equilibri del rugby italiano grazie a Calvisano?
‘Il rugby nell’area bresciana è in continuo sviluppo e sta cercando di avvicinarsi ad altre realtà, come quelle venete. Molte società hanno impostato progetti interessanti, stanno iniziando a investire tanto sulla formazione e sopratutto sul settore giovanile, lavorando nelle scuole per poter avvicinare a questo nobile sport tante nuove generazioni’.
Nel 2015 decide di emigrare in Francia. Come mai questa scelta?

‘E’ stata una scelta dovuta poiché mi sono ritrovato senza squadra, ma anche voluta perché ho sempre voluto vivere un’esperienza all’estero. In Italia non c’erano molte realtà pari al Calvisano e vivere in una Nazione rugbisticamente più sviluppata è stato per me un grosso stimolo’.
Una scelta giusta.
‘Senza dubbio. Un’esperienza stupenda. Se tornassi indietro la rifarei nuovamente’.
Come è andata?
‘E’ stato molto bello, ho avuto la fortuna di avere un allenatore che ha giocato ad altissimo livello (Chris Wyatt, ex seconda linea di Newport, Scarlets e Munster, 58 caps con il Galles) e che mi ha insegnato tanto. Eravamo molto legati’.
Cosa le ha trasmesso l’esperienza francese?

‘Ho vissuto una cultura ovale diversa e un campionato ricco di persone che adorano questo sport, nonostante le tante botte che si prendono in campo. C’è tanta passione, le città vivono per il rugby e durante il giorno della partita l’atmosfera è stupenda’.
Poi, ecco il ritorno in Italia. Il suo presente si chiama Rugby Lumezzane.
‘Purtroppo ho perso la stagione 2016/2017 per problemi legali con chi mi rappresentava. Non è stato facile, specialmente per me, che di rugby vivevo. Però non ho quasi mai perso la speranza e la voglia di ricominciare. Ora ho preso a cuore il progetto del Rugby Lumezzane, molto interessante nonostante la Serie B’.
Stefano, quale è il suo obiettivo a medio termine?
‘Cercare di riconfermarmi nel mondo del rugby’.
E nel lungo termine?
‘Tornare a giocare a un buon livello e togliermi qualche soddisfazione’.
A 26 anni è nel pieno percorso di maturazione sportiva. Dove pensa di poter migliorare?

‘A livello atletico non mi dispiacerebbe migliorare la rapidità sugli appoggi e magari il ‘fiato’. Sono dell’avviso che si può e bisogna sempre migliorare, non si arriva mai. Tutti siamo sempre con le valigie in mano pronti a partire per nuove esperienze’.
I suoi punti di forza?
‘Il placcaggio e il lavoro nel punto d’incontro, il recupero dell’ovale. In attacco mi piace molto sfidare con il pallone in mano, rompere la linea…andare a sbattere insomma’.
Il sogno della sua carriera?
‘Penso sia comune a molti ed è quello di giocare in una squadra professionistica, magari in Francia o in Inghilterra. Assaporare l’essenza e il gusto del vero rugby professionistico’.
Il suo obiettivo di vita?
‘Ne ho tanti. Spero che il mio passaggio al Lumezzane mi aiuti anche sotto questo aspetto’. (foto profilo Facebook Stefano Scanferla)

A tu per tu con Pasquale Bernardo: giramondo ovale nel cuore del Portogallo

‘Ognuno nella vita deve seguire il proprio percorso e cogliere le opportunità che si presentano’. Così, poco più di un anno fa, parlava Pasquale Bernardo, tre quarti calabrese che a Rugbymercato raccontava la sua esperienza nella Super Liga rumena, alla Dinamo Bucarest. Una frase diventata filosofia di vita per Pasquale che, per il momento, non ha l’Italia tra le sue priorità. ‘In Italia non ci sono molte certezze…’, il suo pensiero. Così, valigia in mano, eccolo atterrare in Portogallo. Tra Porto e Lisbona, nel cuore del paese, poco distante da Coimbra. La sua nuova casa si chiama Lousa Rugby Club. Il Campeonato Nacional da Divisão de Honra, il nuovo banco di prova.
Pasquale, come mai il Portogallo?
‘In Italia non avevo certezze e  volevo vivere una nuova esperienza di vita. Ho scelto il Portogallo per confrontarmi con un altro livello e capire come viene vissuto il rugby qui’.
Quali le differenze maggiori rispetto a quello italiano? E a quello rumeno?
‘Il campionato rumeno è molto fisico, caratteristica alla base del gioco. Per il momento non vedo moltissime differenze rispetto a quello italiano, anche se credo che quest’anno l’Eccellenza sia molto più competitiva’.
Si è già fatto un’idea del rugby portoghese?
‘Non completa. Ho capito che il livello è buono, ma c’è differenza tra le prime del gruppo e il resto delle squadre del campionato. Lo scorso week end, ad esempio, il Lisbona ha sconfitto il Viadana allo Zaffanella per la Continental Shield; ritengo che il livello sia buono’.
Sta studiano in Portogallo?
‘Non al momento’.
Gioca come professionista?
‘Si’.
Quello portoghese è un campionato professionistico?
‘Per gli stranieri si. Ma gli allenamenti vengono fatti di sera; in più ci sono le sedute giornaliere di palestra. In generale, non è puro professionismo, la gente lavora e gioca la sera’.
Soluzione spesso chiacchierata anche in Italia…
‘E’ il problema che abbiano nel rugby italiano, soprattutto in Eccellenza, dove si vive un professionismo che professionismo non è. Bisognerebbe lasciare il tempo ai giocatori di conciliare il gioco e l’attività sportiva con un lavoro’.
Quali aspettative ha per la stagione?
‘Il torneo in Portogallo è strutturato in diversi mini gironi, poi le rispettive prime due squadre classificate giocheranno i play off e le altre i play out. L’obiettivo del Lousa Rugby Club è giocarsi i play off’.
E quali sono i suoi progetti?
‘Sinceramente non saprei. Ogni anno è dura decidere se continuare o meno a giocare perché non si può vivere sempre di rugby’.

A tu per tu con Filippo Frati: cultura ovale e orgoglio nocetano al servizio del rugby italiano

Agosto 2010. Al principio della sua esperienza nel massimo campionato nazionale, Filippo Frati si presentò così ai nastri di partenza del primo torneo di Eccellenza. ‘Voglio portare a Parma l’orgoglio nocetano’. Nove mesi più tardi i Crociati – ‘quel team avrebbe dovuto chiamarsi Rugby Noceto’, dirai in seguito il coach -, sorpresa di un campionato rivoluzionato dall’ingresso italiano in Celtic, lotteranno con Rovigo per un posto in finale, poi conquistato dai Bersaglieri. Agosto 2017. Sette anni più tardi, tra play off, traguardi raggiunti, difficoltà e soddisfazioni raccolte durante il cammino, Filippo Frati si presenta nuovamente al principio di un nuovo campionato. Ad accompagnarlo, la stessa feroce determinazione e un orgoglio nocetano che non ha mai abbandonato il suo spirito.


Filippo, partiamo dall’ultima stagione. Viadana torna tra le pretendenti al titolo con una squadra giovane e di talento. Prossimo step del progetto?
‘Per quanto riguarda Viadana, il prossimo step sarà quello di continuare a crescere numericamente e qualitativamente con i ragazzi delle nostre giovanili, cercando di offrire alle famiglie che affidano a noi i loro figli una proposta valida sotto il profilo educativo del bambino e seria per quanto riguarda la crescita fisica, tecnica e tattica del giocatore’.
Riguardo la Prima Squadra?
‘Consolidare e migliorare la cultura di squadra che abbiamo instaurato nella passata stagione e quindi ripartire per inserire i tanti giovani del vivaio promossi in prima squadra e provare a confermarci tra le prime 4 squadre del campionato’.
Riavvolgendo il nastro della sua carriera di allenatore, un pensiero per ogni tappa vissuta nel massimo campionato italiano. Crociati, subito semifinale con un team meno quotato rispetto ad altre avversarie.
‘Con i Crociati giocavo in casa, era il terzo anno con un gruppo di giocatori con i quali era iniziata la mia carriera di allenatore, a Noceto in serie A2. Giocatori che con due promozioni in due anni avrebbero meritato di disputare quel campionato come Rugby Noceto. Ero alla mia prima esperienza nel primo anno dell’Eccellenza e avere raggiunto i playoff con una squadra neopromossa è stato un grande risultato’.
Prato.
‘A Prato sono arrivato grazie alle lusinghe del mio grande amico Andrea De Rossi. Avevo una concreta offerta del Calvisano, alla fine rifiutata, perché a Prato avrei lavorato insieme ad Andrea e giocato le coppe europee. Sono stati due anni non semplici ma bellissimi, i primi lontano da casa’.
Il secondo, vissuto assieme tantissimi problemi societari.
‘La seconda stagione è stata molto intensa, i problemi economici sono cominciati praticamente ad inizio campionato. Difficoltà che mi hanno fatto crescere tantissimo come uomo, perché nelle difficoltà si vede chi sei veramente. Non ho paura di dire che tutti i ragazzi, che insieme a me e ad Andrea hanno tenuto duro in quei sei lunghissimi mesi, possano definirsi uomini veri’.
E nonostante tutto, avete fatto quadrato e sfiorato lo scudetto.
‘Vero, contro Mogliano. Solo una meta fatta, ma non assegnata dal TMO, ci ha negato un titolo che nessuno al mondo meritava più dei miei ragazzi’.
Rovigo.
‘A Rovigo ho vissuto due anni e mezzo indimenticabili, sono arrivato insieme ad Andrea e a Tommaso Boldrini con un progetto ben preciso in testa: riportare entusiasmo e positività in un ambiente, a detta dei giocatori rimasti dalle precedenti gestioni, depresso e negativo. Abbiamo costruito, insieme al presidente Zambelli e al direttore sportivo Pietro Reale, una squadra molto competitiva che è arrivata allo scudetto dopo averne sfiorati due, perdendo meritatamente la seconda finale giocata in casa ma in modo, definiamolo rocambolesco, la prima giocata a Calvisano’.
Il suo allontanamento è avvenuto pochi mesi prima del titolo conquistato poi a fine stagione dai Bersaglieri. Se lo sente un po’ suo?
‘Quel titolo è mio tanto quanto lo è di Joe McDonnell, Luke Mahoney e Tommy Boldrini. Tanto quanto lo è dei ragazzi, del presidente Zambelli e di Pietro Reale’.
Possiamo considerare Rovigo un’incompiuta?
‘No, non reputo Rovigo un’incompiuta. Il mio allontanamento, con la squadra prima in classifica, niente aveva a che vedere con il rendimento del team o con il mio modo di allenare’.
Viadana.
‘Viadana è semplicemente il posto perfetto in cui svolgere il lavoro di allenatore. Strutture all’avanguardia, dirigenza competente e paziente, che lavora con tantissima passione, una passione coinvolgente, travolgente, che tanto ci ha aiutato nei momenti difficili della passata stagione. E un pubblico fantastico, che ti sostiene sempre, sempre. Non mugugna se cade una palla, non fischia se perdi. Ripensando alla semifinale di ritorno a Calvisano mi vengono ancora i brividi per il sostegno ricevuto’.
In una stagione, trofeo Eccellenza vinto e semifinale scudetto conquistata. Un passo in avanti per la sua carriera?

‘I risultati dell’anno scorso sono senza dubbio prestigiosi, ma vanno equamente condivisi con chi ha lavorato con me durante la stagione e con chi prima di me ha allenato i ragazzi nei due tornei precedenti, Regan Sue, Greg Sinclair e Casper Steyn’.
Sin qui, dunque, un bilancio positivo.

‘Sì. In nove stagioni ho ottenuto due promozioni, giocato sette play-off scudetto consecutivi con quattro club diversi e giocato quattro finali scudetto consecutive con due club diversi’.
Insieme ad Andrea De Rossi avevate formato una coppia complementare dal punto di vista tecnico.
‘Andrea è prima di tutto un grande amico, uno di quelli a cui, se buchi una gomma alle tre di notte, telefoni per farti venire a prendere, poi magari lui non viene…ma sarebbe il primo a cui penserei. Scherzi a parte, con lui ho vissuto momenti importanti della mia carriera: dai due anni a Prato, anni in cui vedevo più lui di mia moglie, alla qualificazione in Challenge Cup con il Rovigo ai danni della selezione Georgiana Caucasians, vincendo entrambe le partite, a Rovigo e a Tbilisi. Un’impresa sportiva straordinaria, passata forse un po’ troppo in sordina e che non ha avuto la risonanza che secondo me avrebbe meritato. Reputo quella vittoria il mio risultato più prestigioso’.
Come – e se – è cambiato il suo modo di gestire/allenare il gruppo dopo la vostra separazione?
‘Devo dire che ho accusato il colpo, lui era il poliziotto buono e io ero il poliziotto cattivo. Ho dovuto modificare qualcosa nel mio modo di approcciarmi ai giocatori, ma i ragazzi stessi sono stati i primi ad aiutarmi, capendo la situazione di emergenza che si era creata. In quella seconda stagione a Rovigo abbiamo disputato un campionato pazzesco, vincendo la regular season e giocando un grande rugby’.
Quando ha capito che la carriera di allenatore poteva diventare il proseguimento della sua storia nel rugby italiano?
‘Mi è sempre piaciuto allenare. Quando giocavo a Noceto collaboravo con le categorie giovanili. Prima di diventare coach della prima squadra ho allenato per tre anni le under 13 e 15 del Noceto, arrivando a disputare nel 2007 la finale Scudetto di categoria. Tra il 2002 e il 2004 ho conseguito in Inghilterra Level 1 e 2 per allenare fino all’under 16, livelli che purtroppo però non erano riconosciuti in Italia. Sono molto fiero del percorso fatto come allenatore, nessun livello FIR regalato, ho cominciato dal 1° momento CAS fino ad arrivare al IV° livello Brevetto Federale. Ho fatto aggiornamenti in Nuova Zelanda (2009 e 2010) e in Sud Africa (2015). Ho iniziato ad allenare i bambini fino ad arrivare alla prima squadra del mio paese. Ecco, forse in quegli anni, quelli della doppia promozione con Noceto dalla Serie A2 all’Eccellenza, ho capito che avrei potuto fare qualcosa di buono con questo mestiere’.
Quale è il suo obiettivo come allenatore?
‘Migliorare i giocatori che alleno in tutti gli aspetti della vita affinché diventino atleti capaci e soprattutto delle brave persone’.
Quale messaggio cerca di trasmettere ai suoi giocatori?

‘L’importante è divertirsi, facendo le cose seriamente’.
Cosa ha ‘rubato’ dal Frati giocatore e lo sta utilizzando per il Frati allenatore?

‘Rubato direi niente, penso di averne confermato la tenacia, l’ambizione – intesa come voglia di migliorarsi – e la positività. Le cose importanti che mi hanno dato gli anni da giocatore sono diverse: la prima che mi viene in mente è che grazie ai giocatori stranieri con cui ho giocato ho imparato l’inglese e non è una cosa marginale, anzi; senza l’inglese non sarei mai diventato l’allenatore e la persona che sono. Il confronto e la condivisione sono fondamentali per la crescita in qualsiasi ambito lavorativo, penso quindi che un allenatore di rugby che non conosce l’inglese abbia una crescita professionale molto limitata’.
Una caratteristica che non deve mai mancare ai suoi giocatori.

‘Sono due le caratteristiche per me importanti e sono strettamente collegate tra loro, la fame e l’umiltà’. 
Come giudica il futuro aumento a 12 squadre in Eccellenza? Scelta giusta per migliorare il campionato italiano?

‘Sono da sempre un sostenitore di un campionato a 12 squadre, con 10 il campionato era troppo spezzettato, con due squadre in più inoltre più giocatori avranno l’opportunità di giocare a un certo livello’.
Un libro che non manca mai sul suo comodino.

‘Amo Daniel Pennac, ho letto tutti i suoi libri così come mi piacciono i romanzi thriller di Michael Connelly. Tra gli autori italiani dico Niccolò Ammaniti, anche se ultimamente lo trovo un po’ troppo pulp, ma il suo romanzo Ti prendo e ti porto via penso sia un capolavoro assoluto’.
Rugbisticamente parlando?
Legacy di James Kerr, un testo sui 15 principi chiave degli All Blacks che possono essere applicati alla vita comune di tutti i giorni e adottati da qualsiasi organizzazione, azienda o squadra. Un testo che dovrebbe essere tradotto in italiano e utilizzato come libro nelle scuole superiori’.
Una canzone che non manca mai dalla sua playlist.
‘Non ho un genere musicale preferito, amo i cantautori italiani, Ivan Graziani su tutti e circa otto anni fa ho scoperto una band neozelandese, ora famosissima downunder, i Six60. Se devo scegliere una canzone dico Lost dei Six60 suonata insieme alla Auckland Philarmonia Orchestra’.
Oltre al rugby, gestisce anche un brand di vestiti…
‘Il brand si chiama RM è un’idea nata quasi per scherzo insieme a due amici, Roberto Silva e Marco Bersanetti, ci siamo divertiti producendo t-shirt che hanno avuto un successone, decisamente più grande di quanto ci aspettavamo. Ma per ora il progetto è in stand-by, il graphic designer deve provare a riconquistare i play-off con Viadana…’.

(foto profilo Facebook Filippo Frati)

A tu per tu con Salvatore Costanzo: generale di trincea alla conquista dell’Argentina

Dieci medaglie sul petto. Dieci decorazioni guadagnate in trincea che lo hanno trasformato in leggenda. Il generale Salvatore Costanzo è salpato dal porto italiano con tutti i suoi riconoscimenti. E ha puntato il sud del Mondo. Direzione Argentina. Destinazione Buenos Aires. Il giocatore più decorato del rugby italiano – mai nella storia recente un giocatore aveva urlato la gioia di 10 titoli nazionali – sta scrivendo un nuovo capitolo della sua epopea. Storia dove il rugby, questa volta, è solo complemento. ‘Qui si può imparare molto a livello rugbistico, ma l’obiettivo primario adesso è la carriera lavorativa’. Terminata con successo la campagna italiana difendendo con orgoglio il confine calvino, per Salvatore Costanzo, adesso, la strategia è cambiata. Ma il traguardo, in fondo, non è poi così diverso da una linea di meta da raggiungere con sacrificio e orgoglio.
Salvo, partiamo dalla scelta di trasferirsi in Argentina. Motivazioni?
‘Volevo fare una nuova esperienza di vita con mia moglie e i miei figli. Abbiamo dei progetti lavorativi ambiziosi e molto validi nel campo della ristorazione e difficilmente realizzabili in Italia. Inoltre, la possibilità di vivere in una metropoli come Buenos Aires ci affascina molto’.
E poi c’è il rugby.
‘Certo! Questa è una grande nazione dove si può imparare molto a livello rugbystico. Si respira una passione attorno al rugby che non ha eguali e ho deciso di viverla personalmente. Ora da giocatore, per capire di più. In futuro mi piacerebbe allenare, cosa che amavo fare anche in Italia’.
Sta continuando a giocare?
‘Si sto giocando’.
Bella malattia, il rugby…
‘Sinceramente ero stanco del rugby inteso come lavoro. In Argentina ho scoperto un rugby che non conoscevo, riempito da tanta passione, dedizione e sacrifici. Non è professionistico, ma è molto, molto professionale! E visto che la voglia di rugby non la cancelli facilmente, dopo solo un mese ho esordito con l’Olivos Rugby Club’.
Conosceva già il team?
‘Ci gioca da una vita il fratello di mia moglie, Santiago Monteagudo…che ci ha messo del suo per convincermi a giocare’.
Quali progetti ha in Argentina?
‘Al momento, io e mia moglie stiamo gestendo la colazione e il pranzo del ristorante pizzeria La Jazmina, locale storico di proprietà della famiglia di Daniela. Ci hanno proposto questo progetto, considerato che fino a pochi giorni fa il locale era aperto solo di sera. Per noi si tratta di un punto di partenza, il nostro obiettivo – già in cantiere – è quello di gestire un locale tutto nostro’.
Come sta vivendo questo primo periodo?
‘E’ una sensazione strana. Dobbiamo trovare i nostri ritmi di vita, la mentalità è diversa, non siamo certo in vacanza e ora inizia per me la vita reale, quella lavorativa. Il rugby è stato un lavoro per tanti anni, ma quando sei un atleta professionista sai che tanto dipende solo da te, mentre nel lavoro ci sono mille altre variabili che possono portare al successo o al fallimento. Questo un po’ mi spaventa…’.
Ha lasciato il rugby italiano da campione d’Italia. Un pensiero?
‘Ho lasciato da campione d’Italia, è vero! È stata una gioia incredibile, non potevo sognare di finire al meglio il mio percorso italiano. Volevo lasciare il segno, un bel ricordo a Calvisano. Era diventata un’ossessione. Se non avessimo vinto, probabilmente avrei giocato un altro anno’.
Negli anni ha mantenuto fede a due club, Treviso prima e Calvisano poi, legando il suo nome ai successi del team. In un rugby dove i giocatori cambiano spesso, come mai la scelta di rimanere a lungo nelle stesse squadre?
‘Due club straordinari ai quali sono molto legato e che ho vissuto in periodi fondamentali della mia vita. Treviso mi ha tolto dalla strada, mi ha fatto nascere come giocatore e crescere come uomo. Calvisano mi ha dato la possibilità di rinascere quando pensavo fosse tutto finito. Sono molto grato ad entrambe le società!’.
Il giocatore che in campo le ha creato più difficoltà?
‘Ho avuto la fortuna di giocare contro tanti giocatori forti. Non voglio citarne alcuni con il rischio di dimenticarne altri. Però posso parlare di squadre. Quando giocavo a Treviso, contro Calvisano era sempre durissima e dal sapore speciale. Stessa rivalità che si è creata con Rovigo una volta trasferitomi a Calvisano’.
Un irrinunciabile compagno di viaggio.
‘Il ‘Moro’ Gabriele Morelli, non potrei fare altri nomi. Persona fondamentale nei miei 6 anni a Calvisano; per me, per la mia famiglia, sempre presente, nonché un punto di riferimento importante per i miei figli. Di lui sento particolarmente la mancanza’.
Se potesse, una cosa che cambierebbe nella sua carriera.
‘Nel 2009 ero a un passo dal Perpignan, ma un infortunio a fine stagione fece saltare tutto. Un’esperienza che avrei voluto vivere’.
Un desiderio che non si è ancora avverato?
‘Mi piacerebbe diventare padre di una bambina. Ecco, vi svelo questo. Gli altri li tengo per me…’.
Capitolo Nazionale. Avrebbe voluto maggiori occasioni durante la tua carriera?
‘La Nazionale è stato il più grosso rimpianto della mia carriera, avrei voluto giocare molto di più in maglia azzurra. Quando ho avuto l’occasione, nel 2004, l’ho buttata per troppa arroganza; ho mancato di rispetto a John Kirwan e non sono più stato convocato durante la sua gestione. Dopo tre anni però sono ricominciati gli infortuni a causa dei quali, dal 2007 al 2010, non ho avuto continuità. Poi, nel 2011, dopo la fine della storia con Treviso, tutto sembrava finito’.
Poi alla sua porta bussa Calvisano.
‘Calvisano mi ha cambiato la vita, sia come giocatore che come uomo, così ho deciso di dedicami totalmente a loro: per dimostrare all’ambiente la mia gratitudine e in generale – compreso a me stesso – che non ero un giocatore finito. Riguardo l’azzurro, ormai ero rimasto fuori dal giro per troppo tempo’.  
Torniamo in Argentina. Quali differenze ha notato nel modo di vivere il rugby?
‘La prima differenza che ho notato tra Italia e Argentina è l’attaccamento che atleti e allenatori hanno verso il proprio club di appartenenza, un sentimento quasi morboso, incredibile. Emozioni provate anche per la Nazionale. A tutti i tornei viene data importanza perché sono consapevoli che i futuri giocatori della Nazionale verranno formati proprio dalle società, di conseguenza al centro dell’attenzione di tutto il movimento. Rispetto all’Italia, poi, non ci sono soldi di mezzo, i giocatori pagano per giocare. Non so dirvi se è giusto o sbagliato, ma visto i progressi del rugby argentino, non oso immaginare quali traguardi potrebbe raggiungere se ci fosse anche solo una forma di semi-professionismo come in Italia’.
Salvo, come può migliorare il rugby italiano a livello di competitività e interesse (per i tifosi, per gli sponsor…)?
‘Credo che bisognerebbe dare priorità assoluta ai campionati interni, dall’Eccellenza in giù e non concentrare l’attenzione quasi solamente sulle franchigie. Il futuro del rugby italiano nasce dai club e le franchigie dovrebbero essere solo il passo finale. In Italia i talenti non mancano, bisognerebbe concentrare le proprie risorse in maniera efficace e così ne gioverebbe tutto il movimento’.
Come vive Salvo Costanzo la quotidianità, oltre al rugby?
‘Sto scoprendo molte cose nuove ed è un momento di crescita molto importante per me e la mia famiglia. Mi sto concentrando sul lavoro, aspetto che mi porta via gran parte delle forze mentali e fisiche (adesso capisco cosa vuol dire lavorare veramente e siamo solo all’inizio). Fortunatamente la famiglia di Daniela ci sta aiutando parecchio nella gestione di tutto e ne approfitto per ringraziarla’.
Livello di spagnolo?

‘Me la cavo abbastanza e sono contento, ho avuto mia moglie come insegnante e fidatevi, è stata fondamentale. Mio figlio più piccolo, Luca, ancora non lo parla ma penso, considerato il carattere, che riuscirà ad insegnare prima l’italiano agli argentini che a imparare la loro lingua. Mattia invece, mio figlio più grande, capisce e parla bene e ha già diverse amicizie. Entrambi hanno iniziato a giocare a rugby appena arrivati’.
Sente la mancanza di casa?
‘Della mia famiglia, che sento spesso. Presto verranno a trovarmi e questo mi rassicura’.
E della sua famiglia di Calvisano?
‘Si molto. Cristian Rossi, proprietario del bar in centro, Moro, Davo, Giannino, mio vicino di casa, tutti gli amici, i colleghi…Vi saluto tutti ragazzi, siete sempre con me!’

(foto profilo Facebook Salvatore Costanzo e Stefano Delfrate)

A tu per tu con Giovanni Benvenuti. Addio (o arrivederci?) al rugby a 24 anni. ‘Lavoro e penso al futuro’

Giocarsi una stagione con l’ovale sotto il braccio o il proprio futuro con una laurea in tasca? Giovanni ha scelto la seconda opzione, abbandonando (per quanto tempo, solo lui lo sa) il suo grande amore per il rugby e facendo prevalere il raziocinio. Una scelta forse sorprendente, a 24 anni. Ma intelligente. E senza dubbio lungimirante. Giovanni Benvenuti, tre quarti del Rugby Mogliano, ha deciso di fermarsi qui. ‘Ho uno stage in corso con un’azienda importante. Voglio giocarmi le mie carte. Il rugby? Non chiudo la porta a niente, vedremo in futuro’. Conseguita la laurea, il talento biancoblu ha capito che, la vita vera non si può costruire in un rettangolo verde. Non in Italia, almeno. E così, senza rimpianti, ha deciso per un’altra strada. Con il rugby che, chissà, magari un giorno tornerà a incrociare il suo cammino.
Giovanni, partiamo dalla scelta di abbandonare il rugby professionistico a 24 anni.
‘Dopo aver conseguito la laurea triennale, la scorsa estate, ho deciso di iscrivermi a un master universitario che prevedeva uno stage di 6 mesi. Ho trovato una bella opportunità alla Diesel di Breganze (vicino a Bassano), esperienza che concluderò a fine Ottobre. Viste le distanze e gli orari non compatibili con l’attività sportiva professionistica mi sono trasferito e ho deciso di mettere da parte il rugby per un po’. Ancora non so se questo periodo sarà lungo o breve. Se questo stage mi aprirà le porte a un’assunzione o ad altre belle opportunità, sarò disposto a coglierle e a proseguire su questa strada, senza rugby’.
Motivazioni?
‘Sicuramente la voglia di cambiare routine e vivere un’esperienza nuova’.
Di cosa si sta occupando?
‘Lo stage è nel reparto Global merchandising della Diesel. Lavoro tanto, mi diverto e lo trovo molto stimolante. Per il futuro, sono aperto a tutto’.
La reazione della sua famiglia? Degli amici?
‘I miei genitori sono contenti e mi hanno appoggiato al 100%, dandomi consigli e aiutandomi a riflettere. La mia ragazza tuttora è incredula di come io non abbia già cambiato idea ed è convinta che succederà, mentre gli amici hanno avuto reazioni discordanti: dal “Bravo Gio, hai fatto bene!” a, “Impossibile! Non ci credo che smetti di giocare!”.
Continuerà a vivere il mondo del rugby come giocatore?
‘Non lo escludo. Sono ancora giovane e ho detto più volte che questa non è una scelta definitiva. Mai dire mai!’.
Questa estate, diversi atleti dell’Eccellenza hanno deciso di abbandonare il professionismo. Come mai secondo lei?
‘Non saprei trovare un denominatore comune. Sicuramente bisogna riflettere sul futuro che ti può garantire l’Eccellenza, credo ci sia una motivazione economica di fondo (di lungo termine) condivisa da tutti’.
Anche da lei?
‘Per quanto mi riguarda, terminate le scuole superiori, ho deciso di iscrivermi subito all’Università per tenermi aperte più strade. Quello che sto vivendo ora è il naturale sviluppo di quella scelta’.
Che futuro vede per il rugby italiano?
‘Difficile e in salita. Il caso Zebre ne è l’emblema. E a rimetterci non sono solo tutti i ragazzi che hanno investito per il loro futuro nel rugby (e a cui mancano mensilità di stipendio), ma tutto il movimento che perde credibilità e consistenza’.
E in particolare per il campionato di Eccellenza?
‘Vedremo con questa nuova riforma delle 12 squadre, della quale non sono molto fiducioso. Sicuramente il campionato italiano ha vissuto tempi migliori’.
Quali ricordi conserva del suo periodo da professionista?
‘Il mio esordio in prima squadra a 17 anni e la conseguente prima serata con i ragazzi. Le trasferte per la Challenge Cup, le semifinali scudetto (durante la finale ero a giocare il Mondiale in Cile con la Nazionale). I raduni con l’under 20, i Sei Nazioni e la Junior Rugby World Cup. Tanti ricordi e tante amicizie’.
Il momento più bello?
‘Difficile da dire. Ce ne sono tanti. Mi ricordo la vittoria contro Rovigo, tre stagioni fa, ottenuta in casa. Match vinto 42 a 17 dove ho segnato due mete entrando dalla panchina’.
Quello più brutto?
‘Non aver potuto giocare la finale dei Mondiali under 20 in Cile per una squalifica. Mea culpa’.
Lascerà una porta aperta al rugby in futuro?
‘Certo’.
Cosa vorrebbe veder cambiato nel mondo del rugby?
‘Utopia sarebbe avere un vero professionismo che permetta di garantirsi il post carriera anche in Italia’.

(foto Alfio Guarise – Rugby Mogliano)

A tu per tu con Cristian Sauan: bersagliere pazzo di rugby

Cristian Sauan ha sempre avuto un obiettivo da raggiungere. Con o senza una palla ovale in mano. Da giovane talento del rugby rumeno il sogno era quello di confrontarsi con una realtà estera. E ci è riuscito. In Italia, con voglia e passione ha vissuto un capitolo drammatico e affascinante con la maglia del Rovigo. E una volta tornato in Romania ha deciso di intraprendere il cammino di crescita del rugby del suo paese. Senza nascondersi davanti alle difficoltà di una Nazione rugbisticamente ancora in via di sviluppo. E confrontandosi poi, da adulto, con il quadro offerto dalla vita reale, dove il rugby è solo un’irrinunciabile pennellata di un’opera diventata negli anni ben più grande e complessa.
Cristian, un pezzo importante della sua carriera sportiva l’ha vissuto in Italia.

‘Un’esperienza di vita bellissima. Inizialmente ho faticato, non capivo cosa stesse accadendo attorno a me. Nella vita, se fai una scelta come la mia, non devi pensare tanto altrimenti non decidi più. Nel mio caso sentivo che stava per accadere qualcosa di positivo’.
Voleva vivere un’esperienza all’estero?
‘Sì. Lo dicevo spesso. Per assaggiare un altro tipo di rugby e conoscere altre culture. Era un pensiero fisso e dopo 14 anni nel mio club volevo una nuova esperienza. Dovevo provarci prima di terminare la carriera’.
Quindi un giorno si presenta Rovigo.
‘Il mio allenatore un giorno disse: ‘Verranno a trovarci persone che conosco bene; stanno cercando giocatori per la loro squadra, ti interessa?’. Dissi subito sì. Sarei andato ovunque’.
Detto, fatto?
‘Non proprio. Ricordo l’incontro con il Presidente Bego e alcuni dirigenti. Cercavano piloni, comunque avanti; io giocavo ala. Il mio allenatore mi presentò e feci una prova. Non parlavo italiano, ma la loro espressione mi fece capire che tutto era andato bene. Era un sogno che diventava realtà’.
Era pronto per vivere quel sogno?
‘Volevo solo giocare a rugby. Mi facevo tante domande e non nascondo che inizialmente avevo anche paura. ‘Sarò capace ad abituarmi? Ce la farò?’, mi chiedevo. Sapevo che non sarebbe stato semplice. Mi sarei dovuto adattare a un altro tipo di rugby, meno fisico ma più tecnico e tattico, più intelligente. Questo era l’aspetto che più mi affascinava e che andavo cercando’.
Era così tanta la differenza tra il rugby rumeno e quello italiano?
‘In Romania, a quei tempi, si giocava un rugby molto fisico, basato su contatto, fisicità e poco altro’.
Alla fine ce l’ha fatta.
‘Un’esperienza che mi è rimasta profondamente nell’anima e che mi ha cambiato radicalmente come persona. Un pezzo di puzzle molto importante della mia vita a livello umano e professionale’.
In rossoblu ha vissuto anni importanti ma anche difficili per tanti problemi societari. Cosa ricorda di quel periodo?
‘Sei anni bellissimi e meravigliosi. Ricordo di più i tanti momenti belli rispetti a quelli brutti. Poi mi chiedo: ‘Cosa sono i momenti difficili? Non dobbiamo viverli? Deve sempre andare tutto liscio, senza ostacoli?’. Forse doveva andare così. La vita ci ha fatto incontrare e messo alla prova, tutti insieme’.
Una prova che avete superato grazie a un gruppo molto solido.
‘Abbiamo fatto tutto quello che era in nostro potere per andare avanti. Eravamo in pochi, 28 giocatori. Tutti sempre disponibili, nessun infortunio. Pazzesco, se ci pensate. Di quel periodo a Rovigo si potrebbe scrivere un libro. I tifosi che venivano al campo ci supportavano costantemente e hanno avuto un ruolo chiave nel nostro cammino. Eravamo un gruppo pazzo di rugby. E’ stato bellissimo’.
Come avete fatto a rimanere così uniti (vicini ai play off, poi la salvezza…) nonostante le tante difficoltà?
‘In tutti i momenti difficili della vita ne esce sempre qualcosa di buono. A volte è difficile vederlo. Noi, forse, ce ne eravamo accorti e vivevamo quelle sensazioni. Non mancavano i momenti di sconforto, ma accanto avevi sempre qualcuno che ti spronava. Andavamo al campo per sentire i tifosi del Rovigo, gente che ci capiva e ci amava forse di più. Probabilmente perché ognuno di noi era pronto a fare dei compromessi. Tutte le settimane entravamo in campo dimenticando le difficoltà. Era il sentimento di appartenere a qualcosa, un’energia positiva che ci ha sempre protetto. Questi sono i fattori che ci hanno fatto rimanere uniti’.
La sua esperienza rossoblu è durata sei anni. Quale è stato il momento più difficile?
‘Quando ho deciso di andarmene. Ero arrabbiato, ogni anno sapevamo sempre tutto all’ultimo, ma allo stesso tempo dispiaciuto. Non stavo lasciando solo un club, ma un mondo che era diventato la mia seconda casa’.
Un ultimo capitolo italiano l’ha vissuto a Mogliano. Come è andata quell’esperienza?
‘Esperienza breve ma molto bella. Ambiente accogliente, gente calda e solare e di una grande qualità umana. Tutto diverso rispetto a Rovigo, considerato che solo alcuni giocatori erano professionisti. Nonostante al tempo il San Marco fosse in Serie A, si intuiva che la società puntava in alto. Si lavorava sodo, anche a livello giovanile. Era un club molto esigente con se stesso. Forse al tempo troppo, per i mezzi che aveva, ma si respirava un’aria di evoluzione’.
Terminata l’esperienza italiana, come è proseguita la sua carriera sportiva?
‘Dopo 9 anni bellissimi vissuti in Italia nel 2010 ho deciso di tornare a casa. Ho continuato a giocare nel Cluj e poi mi sono unito allo staff tecnico, aiutando i tre quarti. Tre anni interessanti. Mi sono anche iscritto all’Università, laureandomi nel 2013. Poi, complici anche alcuni cambiamenti societari, ho sentito il bisogno di staccarmi dal rugby, dopo 24 anni. Una pausa che mi ha fatto bene, ho avuto modo di riflettere su altre cose. Nella vita non sai mai cosa può accadere e non volevo trovarmi impreparato’.
Di cosa si occupa oggi?
‘Da tre anni lavoro per un’agenzia responsabile di sicurezza e sorveglianza di diversi centri commerciali. Mi piace, mi tiene attivo e non mi annoia mai, che credo sia la cosa più importante’.
La vita oltre al rugby: un aspetto che coinvolge tutti i giocatori al termine della carriera.
‘All’inizio è stata dura, perché ero abituato a fare solo una cosa nella vita, il giocatore di rugby. Sono convinto che, chi come me ha sempre giocato come professionista, a un certo punto si scontra con queste scelte di vita. Il rugby per me era una bellissima pazzia, mi piaceva troppo e non pensavo ad altro. Ma il dopo-rugby è una cosa altrettanto bella, perché capisci di che pasta sei fatto. Ti devi adattare al cambiamento, nel bene e nel male. Così, per la prima volta nella mia vita, ho messo il rugby in secondo piano. E anche se inizialmente non mi piaceva, la maturità mi ha aiutato a capire e adattarmi’.
Ha riallacciato il suo rapporto con la palla ovale?
‘Da marzo ho ripreso ad allenare la squadra locale della mia città. Seguo i tre quarti e la preparazione atletica. Sarà dura gestire tutto, ma quando ti piace quello che fai non avverti stanchezza e difficoltà’.
Quale è l’obiettivo del rugby rumeno?
‘L’obiettivo sarebbe quello di rinforzare i settori giovanili dei club. Ma non ci sono budget adeguati per lavorare con stabilità e continuità, quindi ci muoviamo alla velocità di una lumaca. Anche i finanziamenti statali sono in diminuzione e le aziende private non investono perché non sono tutelate dalla legge. Nelle difficoltà cerchiamo comunque di andare avanti’.
E quale è il suo obiettivo sportivo, Cristian?
‘Il mio obiettivo sportivo è quello di offrire a tanti ragazzi giovani l’opportunità di diventare grandi e veri giocatori di rugby e di vivere le meraviglie che ti offre questo sport’.
E di vita?
‘Quello di avere un giorno la possibilità di girare il Mondo insieme alla mia famiglia. Vivere tranquillo la vita che stiamo costruendo’.
Segue ancora il rugby italiano?
‘Certamente, come non potrei! Guardo sempre le partite della Nazionale e seguo l’evoluzione del rugby italiano’.
E Rovigo?
‘Assolutamente si! Mi fa sempre un enorme piacere vedere la squadra al vertice della classifica. Sono molto felice che la società abbia trovato la tranquillità che merita. Persone adatte attorno al team, con giocatori e staff che possono così offrire il massimo del loro potenziale. Sono felice per Rovigo’.
Tornerà, un girono?
‘Certo che tornerò. Mi piacerebbe creare un legame con Rovigo per tornare più spesso. Magari tramite tornei o collaborazioni. Un pezzo del mio cuore è rimasto e sarà sempre al Battaglini. L’ambiente rossoblu mi manca molto’.
Su quali aspetti vi concentrate maggiormente per lo sviluppo del rugby nel suo paese?
‘Si lavoro molto a livello scolastico, ma senza seguito. Molti club non hanno team juniores. Il mio, ad esempio, ha attraversato un brutto periodo e non ha sviluppato il settore giovanile negli ultimi anni. Ora abbiamo iniziato nuovamente un progetto per garantire le squadre giovanili alla società. Abbiamo diversi problemi e c’è molto lavoro da fare’.
Come sta crescendo il rugby rumeno?
‘Non sta crescendo molto, purtroppo. Troppi problemi di budget, pochi progetti a livello giovanile e di conseguenza la Nazionale sta incontrando difficoltà a selezionare atleti. Quasi tutti i club si concentrano sulle prime squadre, ingaggiando giocatori dall’Emisfero Sud. Può essere una soluzione temporanea, ma non credo che pagherà nel lungo periodo. Il problema del rugby rumeno è che non ci sono abbastanza soldi per mantenere progetti di lungo periodo a livello giovanile. E così i pochi soldi a disposizione vengono usati per i seniores. Uno sbaglio che ci costerà caro un giorno’.
La meta più bella che abbia mai segnato…
‘Non saprei quale scegliere…Ne ricordo due in particolare. Una meta in Nazionale segnata alla Georgia. Siamo a metà campo, arrivo all’interno del primo centro, ricevo palla in un corridoio impossibile da quanto era stretto e faccio il break. Corro in meta con quattro avversari dietro di me. Era la meta della vittoria. La seconda, sempre in Nazionale, contro la Spagna durante le qualificazioni ai Mondiali del 2003. Calcio a seguire e corsa per 60 metri. In cima alla lista rimarranno comunque quelle segnate a Rovigo. Le mete sono belle se condividi la gioia con compagni e tifosi. E a Rovigo la gioia c’è sempre stata’.
Quali sono i momenti che ricorda con più piacere?
‘Sono tanti, ognuno con il suo fascino. Di Rovigo ho ricordi che non dimenticherò mai. L’aria che si respira al Battaglini durante le partite, l’entrata in campo, le mete. Sensazioni allucinanti. Felicità al massimo’.

(foto profilo Facebook Cristian Sauan)

A tu per tu con Claudio Gaudiello. Concorsi, mercato, Nuova Zelanda: parla il DS delle Fiamme Oro

Un ruolo affascinante, impegnativo e che senza dubbio non gode delle luci del palcoscenico. Direttore Sportivo di una squadra di rugby, anello di congiunzione tra il campo e la stanza dei bottoni. Telefono sempre in mano e sguardo ad ampio raggio. Ruolo e caratteristiche ancor più accentuate se l’incarico è svolto per un’Istituzione Nazionale, come la Polizia di Stato. Claudio Gaudiello è infatti il Direttore Sportivo delle Fiamme Oro, team che dal ritorno nella massima serie si è ritagliato uno spazio importante nel panorama rugbistico nazionale. Il tutto grazie anche all’apporto di chi, pur non segnando mete in campo, ha ben chiari i traguardi da raggiungere.
Claudio, Direttore Sportivo alle Fiamme Oro, squadra di rugby che rappresenta un’Istituzione come la Polizia di Stato. Che significato ha il suo ruolo?

‘Il Direttore Sportivo delle Fiamme è una figura che ha un doppio ruolo: agisce a stretto contatto con il presidente per quanto riguarda la mission e le strategie del club; quindi, insieme allo staff tecnico e al team manager si occupa di tutto ciò che riguarda organizzazione e gestione della prima squadra’.
G
estite il mercato in entrata secondo le regole del concorso pubblico. Ci sono altre eccezioni o alternative per l’ingaggio di giocatori?
‘Si accede al Gruppo Sportivo della Polizia di Stato solo tramite concorso pubblico, dove annualmente ognuna delle 42 discipline delle Fiamme Oro, rugby compreso, comunica quanti atleti ha bisogno, attraverso una selezione dei profili e dei ruoli che interessano. Per quanto riguarda noi, della sezione del rugby, abbiamo dei rapporti istituzionali con la Nuova Zelanda dove, ogni anno, inviamo per 2 mesi alcuni nostri atleti per giocare nel campionato della provincia di Waikato; quest’anno giocano in Nuova Zelanda Dennis Bergamin e Stefano Iovenitti. È comunque un rapporto biunivoco infatti, da tre anni, dalla Nuova Zelanda sono arrivati alcuni giocatori a rinforzare l’organico’.
Come avete sostenuto l’ingaggio di questi atleti?
‘In questo ci ha sempre dato un grande aiuto il nostro main sponsor, Franco Gomme, con Franco De Marchi che ha sostenuto tutte le spese. Da 5 anni è un importante sostegno per noi e per questo lo ringrazio pubblicamente’.
Come gestite invece il mercato in uscita?

‘Secondo le regole della Polizia di Stato: i ragazzi vengono ‘restituiti’ ai servizi ordinari dopo un corso di formazione di 3 mesi e, in base all’anzianità maturata negli anni, cerchiamo di farli avvicinare il più possibile alle loro città di provenienza, in modo che possano lavorare e giocare allo stesso tempo con il club d’origine (ad esempio Nicola Benetti, Guido Barion, Andrea Balsemin, Damiano Vedrani, Ivan Perrone, Lorenzo Favaro…). L’obiettivo è anche quello di rimetterli a disposizione del movimento rispettando le esigenze di servizio’.
Non mancano, a volte, alcune polemiche riguardo la gestione di giocatori professionisti non pagati dal club ma da soldi statali (essendo i ragazzi parte delle forze dell’ordine a tutti gli effetti). Cosa ne pensa di questo aspetto?
‘Dal Comitato Olimpico Nazionale dipendono tutti i gruppi sportivi a ordinamento militare e civile, noi del G.S. Fiamme Oro compresi. La polemica a mio avvisa lascia il tempo che trova poiché, a parte il calcio e poche altre discipline, lo sport italiano si regge sui gruppi sportivi; lo dimostrano le medaglie olimpiche che arrivano proprio da questo sistema, del quale facciamo parte anche noi. A mio avviso questo è un falso problema ed è una sterile polemica che ogni tanto viene riproposta. A chi critica questo sistema di gestire lo sport italiano, chiederei quanti degli sport che ci portano medaglie alle Olimpiadi potrebbero essere praticati nel nostro Paese senza il supporto dei gruppi sportivi militari. La risposta mi sembra chiara: ben pochi. Senza contare che, grazie a questo sistema di gestione dello sport, molti giovani possono praticare la loro disciplina preferita a costi quasi irrisori se non, a volte, a titolo totalmente gratuito. In ultimo, vorrei ricordare che la grande maggioranza degli atleti che lascia le Fiamme Oro, torna a disposizione del circuito lavorativo della Polizia di Stato. Tradotto: agenti con un’età media inferiore a quella del Corpo e fisicamente integri’.
Un’area lavorativa molto strutturata alle Fiamme Oro riguarda anche il settore giovanile. Come sviluppate l’attività juniores e quale impatto ha sul lavoro della prima squadra?
‘Premetto che, da regolamento Coni, la nostra società sarebbe esentata dall’avere un settore giovanile, ma proprio nell’ottica della mission delle Fiamme, nell’arco degli anni abbiamo avviato un valido e florido settore giovanile, che parte dall’under 6 e arriva all’under 18, e conta oltre 300 ragazzi. Il nostro obiettivo è quello di poter vedere un giorno gli atleti dei settori giovanili vestire la maglia della prima squadra. Per raggiungerlo, i nostri tecnici dei settori giovanili lavorano quotidianamente, durante le ore dedicate all’educazione fisica, nelle scuole del litorale romano, proprio per promuovere la pratica e i valori del nostro sport’.
Quali obiettivi – di campo – hanno nel medio periodo le Fiamme Oro?
‘I nostri obiettivi sono a lungo termine: lo scopo è di diventare il punto di riferimento, sia tecnico che organizzativo, del movimento, lavorando su tutte le figure della società (tecnici, preparatori atletici, fisioterapisti, manager e dirigenti) per metterli a disposizione del rugby italiano. E questo sta già accadendo’.
Quali sono le difficoltà più frequenti che incontra nel suo lavoro quotidiano di direttore sportivo?

‘Le Fiamme Oro non sono un club come tutti gli altri e proprio di questa diversità siamo fieri e ne facciamo la nostra forza. Certo, alcune piccole difficoltà, se possono essere considerate tali, ci sono, ma sono soprattutto di carattere burocratico, in quanto dipendiamo da un’amministrazione pubblica: qualsiasi cosa facciamo deve essere autorizzata attraverso procedure precise e soprattutto, come impone la legge, trasparenti’.
Cosa manca alle Fiamme Oro per raggiungere il livello di Rovigo e Calvisano, ultime due finaliste dell’Eccellenza?
‘Siamo sulla strada giusta per poter competere quasi alla pari con queste realtà’.

A tu per tu con Gian Marco Pulli: il gigante della Bassa

Di Gian Marco stupisce la serenità. Serenità con la quale svetta ancora in rimessa laterale all’ombra dei 40 anni e allo stesso tempo racconta una carriera spesa qui e là nella Bassa. Parma, Gran, Reggio, nuovamente Parma. L’esperienza di Gian Marco Pulli, oggi, è al servizio del pacchetto di mischia del Rugby Noceto, guidato dalla sua esperienza e saggezza. Pulli è il nuovo protagonista della rubrica A tu per tu, specchio di un cammino che, tra Super 10 ed Eccellenza, ha visto il gigante ducale diventare negli anni un (orgoglioso) punto di riferimento per il rugby emiliano.

Parma, Gran, Reggio, Parma nuovamente e ora Noceto. La sua carriera è sempre stata legata a una stessa area. Ci sono dei motivi particolari?
‘Nessun motivo speciale. Ho solo avuto la fortuna di vivere in una zona in cui il rugby è sentito e giocato a buon livello. Questo mi ha permesso di sviluppare la mia carriera in casa, per così dire’. 
Come procede la sua esperienza a Noceto?
‘L’ esperienza a Noceto, per il momento, è stata molto bella. Ho cercato in queste due stagioni di portare quella che era la mia esperienza rugbistica in una società che il rugby lo vive molto intensamente’.
Quali obiettivi avete come team?
‘Come team gli obiettivi sono stati raggiunti in questi due anni, ossia promozione dalla B alla A e salvezza in A, ora bisogna continuare a crescere per far tornare Noceto dove merita’
In carriera ha vissuto la crescita del Super Ten e poi il passaggio all’Eccellenza. Come giudica il percorso del rugby italiano?
‘Il rugby italiano non riesce a risolvere i troppi problemi di gestione, specialmente ai massimi livelli. Tutto questo ha rallentato la crescita del movimento. Ma comunque il rugby continua a vivere della passione dei tantissimi volontari che, in ogni società, si dedicano alla crescita del rugby di base’.
 A Noceto gioca come professionista?  
‘No’.
Quali hobby ha oltre al rugby?
‘Tra lavoro e rugby ho poco tempo per gli hobby. Mi dedico al CrossFit, che mi mantiene in forma’.
Quali progetti ha per il futuro?
‘Mi piacerebbe continuare il mio percorso sportivo come allenatore, ovviamente a Noceto’.
Cosa non è mai mancato nella carriera di Gian Marco Pulli?
‘Nei miei 25 anni di rugby giocato credo che non sia mai mancato l’impegno nell’allenarmi e nel cercare il miglioramento’.
E cosa manca invece?
‘Credo che siano mancate tante cose, ma quella che mi dispiace di più è di non aver mai indossato la maglia della nazionale maggiore’.
Un aggettivo che la descrive.
‘Testone, sia dal punto di vista negativo che positivo’.
Un ruolo in campo nel quale avrebbe voluto giocare.
‘Numero 8, ma non sono stato mai abbastanza rapido’.
Se non fosse diventato un giocatore di rugby…
‘Avrei sicuramente praticato un altro sport. Mi piace allenarmi e mi piacciono tutti gli sport. Ma sinceramente non saprei quale’.

 

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