Il viaggio dolce di Francesca Sberna: tra km, cavalli e un tricolore urlato al cielo con Colorno

Dicono che il viaggio sia più importante della meta finale. Aforisma che racconta il sapore del cammino. Il colore dell’attesa. La trepidazione. Un motto che, Francesca Sberna, potrebbe però reinterpretare. Per la giovane seconda linea di Colorno infatti, il viaggio ha forse un significato diverso. Una lingua d’asfalto di 200 km la accompagna tutte le settimane da Virle Treponti, frazione di Rezzato nel bresciano, a Colorno. Nel bagagliaio, la borsa da allenamento. Nel suo cuore, la determinazione nell’arrivare alla sua meta. Un obiettivo che Francesca, insieme alle sue compagne del Colorno, ha raggiunto lo scorso 2 giugno quando, sul terreno di Calvisano, ha conquistato il tricolore. E poco importano gli sforzi. La fatica. E tutti quei chilometri. Per Francesca, almeno questa volta, la meta ha significato molto di più del viaggio.
Francesca, partiamo dalla finale vinta contro Valsugana. Un pensiero rivolto a quel pomeriggio?
Ho un pensiero rivolto a quando mi sono svegliata quel giorno più che al pomeriggio. Ero davvero carica e avrei giocato appena sveglia, peccato che sarei dovuta scendere in campo alle 19.30. Quella partita l’avevo già giocata ogni notte per una settimana nella mia testa, ero molto tesa ma sorridevo e avevo voglia di fare bene’. 
Tesserata con Calvisano, ma in campo con Colorno. Come è strutturata questa collaborazione?

‘Da anni Colorno ha la squadra di serie A. Nel 2013 la FIR ha dato la possibilità alle giocatrici delle squadre seven di poter giocare con squadre a 15, una sorta di permit player. Si chiama tutoraggio ed è così che io e altre ragazze siamo approdate a Colorno. I due campionati sono stati organizzati in maniera tale da non sovrapporsi e permettere alle atlete di giocarli entrambi. La maggior parte delle giocatrici di Colorno è cresciuta nel club. Poi ci siamo noi “tutorate” e quelle che dopo il primo anno di tutoraggio hanno deciso di continuare il loro percorso tesserandosi definitivamente’.
Come è cominciato il suo percorso nel mondo della palla ovale?

‘A scuola, grazie all’attività del Rugby Botticino durante le ore di ginnastica. Avevo 13 anni, ma non c’era una under 14 femminile nelle vicinanze. Così, ho aspettato fino ai 18 anni. Brescia aveva deciso di creare la squadra femminile per la Coppa Italia. Insieme a una mia amica, ho deciso di provare’.
In Italia il rugby femminile non è uno sport professionistico. Come vive nel quotidiano la sua realtà ovale?
‘La mia giornata inizia al mattino, in palestra; finita la sessione corro al lavoro, torno a casa a pranzare per poter fare la borsa e prepararmi la cena per la sera. Quindi, ritorno al lavoro e allenamento. Due sere alla settimana mi alleno a Colorno e due invece con il Calvisano (squadra con la quale sono tesserata)’.
Un bell’impegno.
‘Devo ammettere che se non fossi una libera professionista sarebbe molto complicato trovare il tempo per potermi allenare sia in palestra che in campo; nonostante questo, sono sempre di corsa per poter far collimare il tutto’.
Gli impegni ovali scandiscono anche la via privata?

‘Avendo 4 sere a settimana impegnate dagli allenamenti diventa difficile anche gestire le relazioni nella vita privata. Non tutti capiscono l’importanza degli allenamenti o decidere di dormire alle 23 del sabato sera perché il giorno dopo si gioca. Tante persone si sono stufate dei miei “non posso, stasera ho allenamento”; accanto ho le persone che hanno davvero capito cosa significa per me questo sport’.
Nonostante uno sport non professionistico, a livello internazionale i risultati della Nazionale femminile raccontano di una realtà in salute. Come spiega questo paradosso?
‘Le ragazze in Italia giocano a rugby sapendo benissimo che non potrà mai diventare un lavoro. Giochiamo davvero solo per la passione e per le aspirazioni personali. Inoltre il rugby femminile è in espansione, si ha molta voglia di dimostrare di essere all’altezza dei colleghi uomini. Questo paradosso può essere spiegato facendo riferimento, secondo me, al fatto che è più semplice per noi donne emergere rispetto agli atleti uomini, che sono molti di più’.
Cosa manca al movimento italiano femminile per avvicinarsi ad altre realtà internazionali?
‘Spesso le società faticano a trovare tecnici per le proprie squadre, non molti vogliono allenare le ragazze. Sarebbe bello avere degli allenatori di livello che scelgano di allenare le ragazze perché davvero convinti, quelli che ho avuto la fortuna di incontrare io. Fondamentale poi è il settore giovanile, spesso sottovalutato’.
La base futura di tutte le squadre…
‘Sì, dobbiamo riconoscere che in questi anni la qualità è migliorata tantissimo e sono nate molte nuove squadre femminili under 14 e under 16. Queste nuove leve all’estero vengono allenate con un occhio di riguardo, con la consapevolezza che senza di loro è impossibile pensare a un futuro di qualità. Quindi credo che per avvicinarsi al livello di altre realtà internazionali bisognerebbe curare di più le giovanili, mettendo a disposizione tecnici di livello’.
Guadagna qualcosa  una giocatrice in Italia?
‘Purtroppo no. Se si è fortunati, come mi ritengo io, si ha un rimborso spese’.
Quali prospettive professionali ha una giocatrice in Italia?
‘In Italia oggi è impossibile essere una giocatrice professionista. Non esistono contratti e non si guadagna. Una giocatrice che vuole giocare ad alto livello cerca un lavoro part-time o lavora all’interno della società per avere il tempo di allenarsi e giocare la domenica’.
Ritiene che ci siano dei pregiudizi nei confronti del rugby femminile?
‘Assolutamente si. Da ormai 4 anni collaboro nelle scuole per il Rugby Oltremella, una società del bresciano che ha solo il settore giovanile. Incontro nelle scuole elementari e medie centinaia di bambini e ragazzi, ci alleniamo durante l’ora di ginnastica e diverse famiglie chiedono l’esonero delle proprie figlie dalle attività di rugby a scuola…’.
Motivazioni?
‘A volte sono spesso ridicole; dal classico “ci si fa male” a “diventa un maschiaccio” per continuare con “è uno sport troppo violento”. La cosa più triste però accade quando i bambini mi dicono: “vorrei tanto ma la mia mamma non vuole”. Accanto a ciò però ci sono anche tante famiglie che incoraggiano le proprie figlie a intraprendere questo sport, senza pregiudizi e senza paure’.
Francesca, passioni oltre al rugby?
‘Ne ho una grande che dura da una vita, da quanto ho 7 anni faccio equitazione. A 20 anni è diventato il mio lavoro. Domo e addestro puledri da salto ostacoli e dressage per un allevamento molto importante, inoltre insegno nel circolo ippico annesso’.
Una sportiva, o uno sportivo, verso la/il quale ha sempre cercato di trarre ispirazione.
‘Il rugby centra poco, si chiama Michel Robert é un cavaliere olimpico che ho avuto la fortuna di incontrare a una gara. Ha avuto un inizio di carriera sfortunato ma lavorando su se stesso e sui suoi cavalli ha raggiunto i massimi livelli. Mi ispiro a lui perché non è uno di quei fenomeni ai quali viene tutto bene subito. Lui si è dovuto impegnare a fondo e lavorare sui propri difetti per arrivare in alto. A 65 anni si è ritirato dalle competizioni’.
Una canzone che non manca mai dalla sua playlist.
‘Stairway to heaven dei Led Zeppelin’.
Un libro che tutti dovrebbero leggere.
Io non ho paura di Niccolò Ammaniti’.
Una partita che vorrebbe giocare.
‘Italia-Nuova Zelanda, ovviamente’.
Un sogno che vorrebbe realizzare.
‘Giocare al 6 Nazioni’.

(foto profilo Facebook Francesca Sberna)

Autore: Andrea Nalio

Polesano, giornalista dal 2008, lavora come free lance a Londra e rappresenta l'anima operativa di RugbyMercato.it. Nel recente passato ha collaborato con i quotidiani Il Resto del Carlino e La Voce di Rovigo e condotto la trasmissione "Linea di Meta" per Radio Kolbe. Ha pubblicato anche un libro: «Pepenadores. Insieme ai cacciatori di rifiuti»: Reportage sulla dignità dei riciclatori informali della discarica di Oaxaca (Messico).

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