Mitre10 Cup. Tasman. Casa. La vita agli antipodi di Giovanni Ghelfi

‘Quando guardiamo qualche partita in televisione a casa, sento mia suocera fare dei commenti di uno spessore tecnico degno dei migliori coach. E’ chiaro che qui il gioco è una seconda natura’. Per Giovanni Ghelfi invece la Nuova Zelanda è una vera e propria (seconda) casa. Mantovano, classe ’73, all’amore per il rugby Giovanni affianca anche quello per Vieve, figlia di Aotearoa, con la quale in questi mesi ha deciso di tornare laggiù. Dopo l’esperienza in qualità di Liason Officer dei Baby Blacks durante il Mondiale italiano del 2015. Giovanni nel tempo ha continuato il suo personale cammino con la palla ovale, diviso tra Mantova e la terra della grande nuvola bianca. Un percorso che, quest’anno, lo ha inoltre portato a vivere il Mitre10 Cup da una prospettiva privilegiata grazie ai Tasman Makos di Leon MacDonald.
Giovanni, è sempre ben saldo il suo rapporto con la Nuova Zelanda.
‘Sì. Quest’anno, dopo l’ennesimo intervento al ginocchio, ho deciso insieme a mia moglie Vieve di trascorrere qualche mese in Nuova Zelanda dai nonni materni, che tra l’altro non vedevano l’ora di trascorrere del tempo con nostra figlia. ‘Grand Dad’ John è inoltre il fisioterapista del Marlborough Rugby, così mi ha seguito durante la riabilitazione’.
Ritorno in Nuova Zelanda a poco più di un anno dall’incoronazione come campione del Mondo con i Baby Blacks.
‘Un’esperienza che rimarrà sempre viva in me, dal punto di vista umano e professionale. Se vogliamo, anche una svolta personale come allenatore per le idee che mi hanno trasmesso allenatori e giocatori’.
E’ ancora in contatto con alcuni ragazzi conosciuti in Italia?
‘Appena arrivato a Blenheim ho contattato Leon MacDonald, parte dello staff degli Baby Blacks in Italia. Mi ha accolto con grande disponibilità e generosità, come accade solo con le vere grandi persone. Ovviamente, tra un caffè e l’altro, abbiamo parlato di rugby e mi ha illustrato il progetto tecnico che avrebbe sviluppato durante la stagione di Mitre10 Cup con Tasman’.
Stagione che poi lei ha vissuto interamente con la squadra.
‘Sì. Avrei dovuto lasciare la Nuova Zelanda a fine estate, poi però alcuni aspetti familiari, tra i quali il matrimonio di zia Niki a dicembre, ci hanno fatto decidere di rimanere più a lungo’.
Quindi, porte aperte al mondo Tasman Makos.
‘Sono stato invitato a partecipare alla loro vita quotidiana. Allenamenti, riunioni, partite, insieme a Leon MacDonald e Mark Hammet, due campioni veri e propri’.
Un pensiero sul Mitre10 Cup.
‘Quest’anno sono state adottate alcune regole sperimentali e per questo, la necessità di adattamento, è stata una qualità chiave di molte squadre. In questo MacDonald e il suo staff sono stati maestri. Si tratta di sfaccettature, piccoli dettagli che fanno un’enorme differenza e anche se le regole non rimarranno, l’esercizio di adattamento è prezioso per qualsiasi situazione in campo. Per esempio, sto studiando assieme ai Makos un nuovo modulo d’attacco e una nuova ridistribuzione che crea più opzioni. Semplice. Pragmatica. Efficace’.
Come è andata la stagione con Tasman, sconfitta solo in finale da Canterbury?
‘Tasman aveva iniziato la stagione a rilento, complice anche la giovane età del team. Poi però si è ripresa, cominciando a vincere grazie a combattività e attitudine. Abbiamo vissuto la storica vittoria contro l’attrezzatissima Auckland (prima volta di sempre) 31-49 e la vittoria record contro Southland 56-0. In quell’occasione ero anche nel box degli allenatori. Attacco sempre più brillante e una delle migliori difese del torneo’.
Considerati i tanti anni di rapporto con il rugby neozelandese, cosa c’è secondo lei alla base di un movimento di così grande successo?
‘In Nuova Zelanda non si improvvisa niente. Il lavoro è frutto di un programma lucido e chiaro fin dall’inizio. Per esempio, durante la regular season Tasman ha perso 45-14 da Canterbury, che vantava una rosa da capogiro, tra All Blacks e giocatori di Super Rugby. Ma alla fine abbiamo comunque raggiunto la finale, grazie a tutto il lavoro svolto durante le settimane’.
Un’esperienza che arricchisce anche il suo bagaglio tecnico.
‘Vedere come vengono preparate le partite mi riempie di entusiasmo, di passione, di gratitudine. E’ un’iniezione di umiltà ma anche di rugby ad altissima professionalità’.
Cos’è la Nuova Zelanda per Giovanni Ghelfi?
‘Sono quasi vent’anni, metà della mia vita, che esploro questo arcipelago, la sua gente, la sua cultura, il suo rugby. Adesso anche qui è casa. Ho frequentato il primo corso da allenatore alla House of Pain Carisbrook, nel 1999. Poi, nella House of Pain, ho giocato (e allenato) persino una partita con i miei Taieri Colts, il club di Brad Thorn, contro Southern, nel campionato metropolitano di Dunedin. Certamente le cose cambiano, la vita è un po’ più ‘continentale’ di 20 anni fa. Rimangono però quegli aspetti caratteristici di questo luogo affascinante dove si va diretti alla sostanza e c’è poco spazio per il resto. Un’altra caratteristica è la cosiddetta ‘Kiwi ingenuity’, pragmatismo forse messo insieme con il filo di ferro, ma molto efficace. Ovviamente il tutto si rispecchia anche nel gioco’.

Autore: Andrea Nalio

Polesano, giornalista dal 2008, lavora come free lance a Londra e rappresenta l'anima operativa di RugbyMercato.it. Nel recente passato ha collaborato con i quotidiani Il Resto del Carlino e La Voce di Rovigo e condotto la trasmissione "Linea di Meta" per Radio Kolbe. Ha pubblicato anche un libro: «Pepenadores. Insieme ai cacciatori di rifiuti»: Reportage sulla dignità dei riciclatori informali della discarica di Oaxaca (Messico).

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