Un professionismo straccione

Riportiamo per intero il fondo di Ivan Malfatto pubblicato oggi da Il Gazzettino, quotidiano di riferimento del Nord-Est, da sempre molto attento ai temi del rugby nostrano. Si tratta di una fotografia di quella che è l’attuale situazione al di fuori della Celtic, il professionismo vero e per questo crediamo meriti il massimo risalto.

I prezzi da pagare al professionismo “straccione”. Una quarantina di giocatori sono attualmente impegnati in contenziosi economici con il proprio club, perchè non hanno ricevuto i compensi stabiliti. A fine anno secondo stime pessimistiche, ma non fuori dalla realtà, potrebbero essere un centinaio quelli costretti a ricorrere a lodi arbitrali per riscuotere le proprie spettanze. In media uno su tre fra i trecento atleti che compongono le rose di Super 10. È questa la drammatica situazione fotografata dall’Air (Associazione italiana rugbisti) nella stagione dello sbarco dell’Italia in Celtic League. Operazione che dovrebbe far compiere un passo decisivo verso il “vero” professionismo. Secondo i dati dell’associazione solo Petrarca Padova, Mantovani Lazio e Mogliano fra le attuali “dieci sorelle” del campionato hanno sempre pagato con regolarità e non hanno atleti coinvolti in contenziosi. Andrea Rinaldo, ex presidente proprio del Petrarca oggi consigliere federale, da anni ha coniato una definizione forte, ma calzante, per questo fenomeno. Un termine affatto offensivo, che deve far aprire gli occhi sulla realtà. Lo chiama professionismo “straccione”. Perchè dalla parte del giocatore non dà prospettive di futuro (a parte l’eccezione di qualche big) visti i bassi compensi, l’incertezza nel riscuoterli, la precarietà della condizione in cui relega gli interessati. Mentre dalla parte della società mostra il livello di pressapochismo e scarsa professionalità con il quale sono gestite. Un tempo passione, buona volontà e qualche posto di lavoro in banca o altrove potevano bastare a un club che navigava nel rugby dilettantistico. Oggi in un rugby che segue le chimere dello sport spettacolo non bastano più. Servono competenze, professionalità e capacità di gestione che in molte società non esistono. Aveva provato a fornirle la Lire, ma il suo tentativo è stato fatto morire. Così oggi mentre ci confrontiamo con l’Europa (celtica) in casa abbiamo L’Aquila che per non sparire si mette nelle mani del sindaco. Rovigo che si rifonda per dribblare il passivo, Parma e Gran che si fondono con altre realtà, Venezia che spera di uscire dal crisi con il ripescaggio, Roma ammessa sub judice al campionato per i debiti giudiziari e altri esempi. Le soluzioni a tutto questo sono due. Una di breve perìodo, che l’Air proporrà alla Fir in settembre: chiedere a ogni club iscritto al campionato una fideiussione a garanzia dei contratti con i giocatori. Il calcio lo fa fino alle serie minori, non si vede perchè non debba farlo il rugby nella sua serie d’Eccellenza. L’altra di lungo periodo: con il vero professionismo concentrato solo in Celtic, a livello inferiore ci sarà la calmierazione dei costi e il ritorno a una generazione di giocatori semi-professionisti e non più professionisti “straccioni”. È la strada intrapresa dalla Fir con la sua riforma del vertice. Fra 4-5 anni, in base ai risultati raggiunti, sapremo se è davvero la strada giusta.

Autore: Manuel Zobbio

Marketing Communication Manager presso Zani Serafino, azienda storica del cookware e del design made in Italy. Un master di specializzazione del Management dell'Atleta. E' con Marco Martello il referente italiano di Digidust Sport, primaria agenzia internazionale di marketing e sport management specializzata nel rugby. Co-Fondatore di RugbyMercato.it e anima di PiazzaRugby.it dal 2009, ha fatto parte della redazione del mensile Rugby! magazine, del settimanale lameta e di MondoRugby.com, collaborando anche con l'European Rugby Cup.

4 pensieri riguardo “Un professionismo straccione”

  1. Trovo l’articolo molto centrato.I giocatori si aspettano di guadagnare cifre che possano risolvere la loro economia futura ma, in risposta, la maggior parte di loro si presenta ai raduni in condizioni fisiche non accettabili per un atleta che si definisce professsionista. Le società, dall’Eccelenza alle serie A (che dovrebbero essere contenitori e palcoscenici per gli emerging players), le società, dicevo, sono gestite “straccionescamente” da dirigenti che sono doppiamente colpevoli. Prima colpa: farsi convincere da questi giocatori e non sanzionarli per le mancanze fisiche e di rendimento; seconda, e più grave, colpa quella di essere persone mature e socialmente affermate ma che permettono allo “straccionismo” di espandersi a macchia d’olio. Forse in questi comportamenti si può leggere un amore viscerale per il rugby “pan e formajo” di una volta … ben venga! Ma a patto che si smetta di ingrandire le proprie mire e si ritorni alla formazione dei giocatori nei club, a manetenere la storia del club, a legare i vecchi al club accantonando le faide… e i professionisti? che si guadagnino il loro posto partendo dal fango dei piccoli club.Chi è avezzo al rugby di oggi sa benisimo che se un ragazzo è stato convocato in una nazionale (dalla 15 in su)diventa uno che merita subito qualcosa di più che il suo club … dove stanno le colpe in questo rugby oramai distorto nei rapporti tra giocatori e società? e i procuratori che, una volta firmato il contratto tra società e giocatore, spariscono e non gestiscono più il problema serietà durante il campionato? Trovo pazzesco questo modo di affermare questo sport che, per affermarsi, consuma l’essenza di se stesso. Dobbiamo ripensare il modo? Sui tecnici potremmo aprire un lungo dibattito ma, per oggi, basta così!

  2. Mi associo in tutto e per tutto. Sono nel mondo del rugby da più di 30 anni e sinceramente ho apprezzato di più gli anni eroici in cui nessun giocatore pensava a cambiare casacca. Ma i tempi cambiano e bisogna adattarsi. Ora la cosa importante è chiarire bene e senza commistioni chi vuol stare nel professionismo e chi vuol stare nel dilettantismo. Il professionismo è imprenditoria e valgono le leggi del mercato. O si è in grado di stare sul mercato o si salta. Inutile poi piangere dal sindaco o chi altro. Chi vuol stare nel dilettantismo deve a sua volta rispettare le regole del dilettantismo. Il che vuol dire che chi gioca non “mangia” di rugby ma fa altre cose e per divertirsi gioca a rugby, che la società non fa passi più lunghi della gamba e che gli aspetti di socializzazione e integrazione devono prevalere sull’agonismo esasperato.
    Chiariti gli ambiti di appartenenza ognuno si atterrà alle regole e all’etica del suo spazio.

  3. Io credo che sopratutto Stefano abbia inquadrato bene il problema. Il professionismo straccione, aggiungo io, al di là dei distinguo che in questi spazi non è possibile fare, è certamente di molti giocatori che non sono mai diventati atleti (e qui una parte delle colpe appartine alla tipologia di formazione del giocatore ed altro ancora) ma, anche e soprattutto, della maggioranza dei Club che, tutt’ora, vengono gestiti così come viene gestita l’Azienda Italia. Se il Club, per primo, con i suoi manager non è in grado di fare economia, è chiaro che non potrà optare per una politica di gestione delle risorse ma di “arrangiarsi come può”. Da qui, tutto il resto che condivido come dice l’ottimo Stefano. Il problema, ora è: c’è futuro o no?

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