Rugby e comunicazione: Elvis Lucchese, el sabor ovale tra le note della sua penna

Il semaforo verde sul Sei Nazioni. Il campionato destinato a entrare nella sua fase più calda. All’orizzonte, un Mondiale dove l’Italia cercherà ancora una volta di regalarsi una gioia mai vissuta. Eppure per Elvis il mondo della palla ovale ha perso el sabor. ‘O forse sono io che non lo trovo più…’. Lui, Elvis Lucchese, raffinato giornalista del Corriere figlio della terra ovale, il sapore lo trova spesso nella ricerca. Ricerca di un rugby passato, fondamenta di uno sport che molto deve alla passione veneta. Capitolo per capitolo, pagina per pagina, parola per parola. Le opere di Elvis lasciano sempre un sabor particolare, risultato che – senza perder di vista il filo conduttore ovale – regala ai lettori un gusto che travalica il semplice piacere della lettura.
Elvis, nell’ultimo periodo si è ‘staccato’ dalla quotidianità ovale. Motivi?
‘Un po’ per motivi personali, un po’ perché mi sembra che nel rugby di oggi manchi qualcosa. Ci sono fisico, schei, spettacolo, eppure non c’è, come direbbero in Messico, el sabor. O perlomeno sono io che non lo trovo più, quel qualcosa che rendeva il rugby speciale. Per me ormai è solamente uno sport come gli altri. Da tre o quattro anni a questa parte l’unica volta che mi sono veramente emozionato a una partita è stato al Battaglini per lo scudetto del Rovigo, quindi nel maggio 2016. Quella sera lì c’era davvero el sabor…’.
Recentemente ha pubblicato il suo ultimo scritto, ‘Sport di combattimento. Gli esordi del rugby in Veneto, 1927-1945’. E’ sempre molto legato alla territorialità del rugby veneto: quali sono i fattori che la spingono a iniziare una ricerca in una determinata area?
‘Mi sono sempre occupato di rugby veneto solo perché questa è la mia regione. Ma sono certo che occuparsi del rugby di Catania, L’Aquila o Frascati sia altrettanto affascinante. Come ogni giornalista, ho sempre cercato delle storie significative da raccontare. Nel mondo trovo interessante come il rugby si sia inserito nelle dinamiche sociali, con analogie e ma soprattutto grandi differenze fra paese e paese. Non ho nessun progetto specifico all’orizzonte’.
In un’intervista ha detto che le piacerebbe continuare la ricerca della storia sociale in Veneto fino ai giorni nostri. E’ il suo prossimo passo?
‘Per fare ricerca seriamente servono molte energie e molto tempo. Se in futuro trovassi dei fondi per questo impegno, sì, certamente mi piacerebbe scrivere una storia del rugby in Veneto. Gli spunti sono molti’.
Un aspetto che ha attirato la sua attenzione in merito all’evoluzione sociale della palla ovale (veneta o italiana).
‘Alla fine degli anni Trenta, quando in Italia non si sapeva neppure cosa fosse, il rugby a Rovigo muoveva già intense passioni. Nel gennaio del ’41 ci fu addirittura una squalifica del campo e dei due Battaglini per l’intera stagione, con accuse pesantissime di “tifo deleterio” da parte del presidente della Federazione. Mentre i pionieri del rugby si davano arie da lord inglesi, sbandierando fair play e dilettantismo, a Rovigo si voleva vincere e basta. Sugli stessi temi in Inghilterra, nel nord operaio, si era consumato lo scisma del XIII. Dall’approccio “plebeo” di Rovigo (approccio che peraltro mi sta molto simpatico) si può partire per molte considerazioni sull’evoluzione seguente del rugby in Veneto’.
Il libro che non manca mai sul suo comodino.
‘Un libro di rugby? Non ne tengo sul comodino… Semmai “Libera nos a malo” di Meneghello, un capolavoro che mi fa anche sempre ridere’.
Una meta che non ha ancora segnato.
‘Assistere a una finale dei Mondiali’.
Un traguardo che vorrebbe raggiungere.
‘Vedere una partita dal vivo in Georgia. O in Siberia. O alle Fiji. Vabbè, anche alle Samoa o in Madagascar…’.
La squadra, italiana o straniera, per la quale prova più affetto.
‘Oddio, ce ne sono diverse. Amavo il Toulon prima che diventasse quella specie di Paris Saint Germain che è ora. Mi sono innamorato del rugby “Razza Piave” giocato a San Donà negli anni Ottanta e Novanta. Soprattutto ci sono molte persone del rugby per le quali provo grande affetto. Alcuni sono ormai amici, altri li conosco appena ma mi ispirano una enorme energia positiva. Ad esempio Ino Pizzolato, da 45 anni l’anima della Tarvisium, una persona che incarna tutto il meglio del mondo del rugby: generosità, umiltà, voglia di fare gruppo. Un allenatore di altissimo livello, peraltro’.
Capitolo giornalismo. Per tanti anni ha raccontato il rugby dalle pagine del Corriere. Elvis, nel 2018 si può vivere di giornalismo ovale in Italia?
‘L’interesse per il rugby in Italia è senz’altro cresciuto dal 2000, ma viene spesso sovrastimato perché si considerano solo i picchi del Sei Nazioni mentre l’attenzione del grande pubblico andrebbe misurata sulla media dell’intera stagione. C’è un altro enorme ostacolo, che l’Italia e i club italiani perdono sempre. Per alimentare l’interesse servirebbe vincere regolarmente, e magari vincere una volta qualcosa di importante. In definitiva non mi sembra che ci sia ancora un “mercato” di lettori come in Francia o in Regno Unito. Fermo restando che in Italia si legge poco e che negli ultimi anni si legge soprattutto sul web, quindi… gratis. In ogni caso, come insegna il successo di Buffa, lo sport bisogna conoscerlo a fondo e saperlo raccontare, questo rimane il compito del giornalista sportivo’.
Un sentiero giornalistico che a suo avviso non è ancora stato battuto.
‘Ce ne sono senz’altro. Ma ci sono ormai anche infinite testate, blog, pagine facebook che si occupano di rugby e producono infiniti “contenuti”. La questione di fondo non riguarda cosa, ma come. Quando Cechov, che pure era un aristocratico, volle raccontare le colonie penali della Russia zarista, viaggiò da Mosca a Sachalin e lì rimase per nove mesi… Di qualsiasi sentiero si tratti, non sono ammesse scorciatoie’.
Al principio del Sei Nazioni e a un anno dal Mondiale, come giudica la situazione di salute del rugby italiano?
‘Beh, da un punto di vista sportivo, il rugby italiano è clinicamente morto. E’ cioè una realtà tenuta in vita artificialmente: se partecipiamo al Sei Nazioni e alle Coppe Europee è per interessi commerciali, non certo per i risultati ottenuti sul campo secondo i quali, di fatto, siamo un paese di Tier 2. A 18 anni dall’ingresso del Sei Nazioni non si vede ancora nessuna vera programmazione tecnica di ampio respiro: neppure il progetto delle Accademie è stato condotto fino in fondo, come era auspicabile almeno per coerenza. Invece la base è molto vivace, nascono continuamente molti club, ma si tratta di aggregazione, promozione. Il cosiddetto “alto livello” sta peggio di dieci anni fa, anche se senz’altro O’Shea è stata un’ottima scelta’.
Se potesse cambiare una sola cosa – o influenzarla con un suo pensiero – nel mondo del rugby italiano, cosa farebbe?
‘Un rilancio in grande stile del campionato’.
(foto profilo Facebook Elvis Lucchese)

Autore: Andrea Nalio

Polesano, giornalista dal 2008, lavora come free lance a Londra e rappresenta l'anima operativa di RugbyMercato.it. Nel recente passato ha collaborato con i quotidiani Il Resto del Carlino e La Voce di Rovigo e condotto la trasmissione "Linea di Meta" per Radio Kolbe. Ha pubblicato anche un libro: «Pepenadores. Insieme ai cacciatori di rifiuti»: Reportage sulla dignità dei riciclatori informali della discarica di Oaxaca (Messico).

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