Tutte le strade di Andrea Bacchetti: da Rovigo a Roma, le 150 presenza Eccellenti del bersagliere cremisi

Dicono che tutte le strade portino a Roma. Una (mezza) verità per Andrea Bacchetti, che da tre anni ha scelto la via della Capitale, svestendo un rossoblu tanto caro quanto crudele per continuare il suo percorso sportivo con la divisa cremisi. ‘Dopo sette anni a Rovigo, la mia prima partita con le Fiamme è stata proprio al ‘Battaglini’. Prima di entrare in campo ero così emozionato che ho dovuto chiamare a casa per sfogarmi…’. Non tutte le strade di Bacchetti portano però a Roma. Molte, forse le più importanti, lo (ri)portano nella sua Rovigo. Una città che lo ha cresciuto e dove ha vissuto nel tempo emozioni così distanti tra loro che, nel bene o nel male, lo hanno formato e aiutato a tagliare oggi il traguardo delle 150 presenze nel massimo campionato nazionale.

Andrea: 28 anni e 150 presenze in campionato. Un bel traguardo…
‘Sì, è motivo di grande soddisfazione. Mi fa pensare che ho fatto qualcosa di buono in tutti questi anni di rugby’.
Un punto fisso nelle squadre per le quali ha giocato.
‘In effetti ho sempre preso parte ‘attivamente’ a tutte le partite che ho giocato, ma devo dire che sono stato anche fortunato, perché nel tempo ho mantenuto una forma fisica che mi consentisse di scendere in campo sempre al massimo’.
Bacchetti l’indistruttibile?
‘Non è solo merito mio, bensì anche degli staff che mi hanno seguito, sia nella mia vecchia società, il Rovigo, sia alle Fiamme Oro. In entrambe ho potuto toccare con mano un’alta professionalità’.
Tracciamo un primo bilancio della sua carriera sportiva.
‘Posso dire di essere sereno per tutto quel che ho fatto finora; ho raggiunto quasi tutti gli obiettivi che mi ero prefissato all’inizio della mia carriera: sognavo di indossare la maglia azzurra e l’ho fatto con la Nazionale maggiore, giocando anche il 6 Nazioni, e con la Nazionale 7 con la quale sono sceso in campo più volte; volevo esordire con la squadra della mia città e giocare una finale scudetto davanti al pubblico più bello d’Italia e in quello che considero il tempio del rugby italiano, il ‘Battaglini’, e l’ho fatto. Ho sempre scelto con la mia testa, confrontandomi e consigliandomi con la famiglia, che mi ha sempre supportato’.
Prima tappa: Rovigo. Grande ‘amore’ della sua vita.
‘Se nasci e cresci a Rovigo, non puoi non innamorarti del rugby. Ho iniziato a giocare a 6 anni seguendo i miei amici. Poi nel tempo ho capito che poteva diventare qualcosa di più…’.
Ci regala alcuni flashback?
‘La prima volta che ho indossato la casacca rossoblu, l’entrata in un ‘Battaglini’ stracolmo, il boato del pubblico una volta segnata la meta nella finale scudetto del 2011 – è servita a poco, ma non la scorderò mai -. Poi, il Trofeo Eccellenza vinto con le Fiamme proprio a Rovigo nel 2013 che mi ha regalato sentimenti contrastanti: ero al settimo cielo per aver vinto un trofeo al ‘Battaglini’, ma l’avevo fatto contro la squadra che mi aveva cresciuto…’.
Ancora oggi, nonostante vive a Roma, il legame con la sua città è ancora forte.
‘Sì, sono molto legato alla mia città. C’è la mia famiglia, i miei amici e i miei affetti più cari. Quello che ho con Rovigo e la sua gente è un rapporto speciale; ricordi indelebili che porterò per sempre dentro di me’.
Nel 2013 inizia la seconda tappa del suo cammino sportivo: le Fiamme Oro.
‘E’ stato il mio amico Marcello De Gaspari, che già giocava nelle Fiamme Oro, a parlarmi di questa società e del desiderio del team di tornare tra le ‘squadre che contano’ del rugby italiano. Così mi sono deciso a tentare il concorso per far parte del Gruppo sportivo della Polizia di Stato’.
Una scelta sportiva, ma anche di vita.
‘Certo, perché una volta appesi gli scarpini al chiodo, si ha la possibilità di rimanere in ambito sportivo ma anche di imparare un mestiere, quello del poliziotto. Per questo, ci tengo a ringraziare profondamente il presidente Armando Forgione’.
Cosa significa essere un giocatore delle Fiamme Oro?
‘Noi del Gruppo sportivo Fiamme oro siamo innanzitutto dei poliziotti, anche se svogliamo solamente attività sportiva. Per ora è questo il nostro lavoro, per il quale ci alleniamo giornalmente; seguiamo comunque anche dei corsi di aggiornamento che ci serviranno per svolgere la professione che faremo in futuro, quella del poliziotto. Tutti noi siamo perfettamente consci di questo, come anche del fatto che il nostro comportamento dentro e fuori dal campo deve essere sempre esemplare. In una società come le Fiamme Oro si hanno responsabilità che in altre non si hanno, perché rappresentiamo un’Istituzione, la Polizia di Stato. E questo, per tutti noi, è anche ragione di orgoglio’.
Nel suo percorso c’è anche una tappa azzurra.
‘Il ricordo più bello è stato l’esordio in Nazionale contro l’Irlanda al Flaminio. Ho avuto l’onore di vestire la maglia azzurra a 21 anni e partecipare al 6 Nazioni dopo un’ottima stagione con la maglia rossoblu. Ho conosciuto giocatori come Mauro e Mirco Bergamasco, Gonzalo Canale, Paul Griffen e tanti altri dai quali ho imparato molto sia in campo che fuori’.
Una decisione che Andrea Bacchetti riprenderebbe…
‘Quella di entrare a far parte della famiglia delle Fiamme Oro. Penso che per un giocatore, in Italia, avere la possibilità di allenarsi professionalmente ogni giorno, con strutture all’avanguardia e allo stesso tempo avere un futuro lavorativo già ‘scritto’, sia un qualcosa di impagabile che ti permette di dare tutto in serenità’.
Un rimpianto…
‘La finale scudetto persa nel 2011 a Rovigo contro il Petrarca. Era un sogno che avevo fin da piccolo e per l’occasione avevo cercato di dare tutto me stesso, come del resto anche i miei compagni di squadra. Ma si sa, lo sport è fatto anche di sconfitte, dalle quali si impara comunque molto’.
Un rito che compie prima di ogni partita.
‘Non seguo particolari rituali scaramantici. Cerco solo di pensare bene ai compiti che mi vengono assegnati, agli eventuali errori che potrei commettere e come cercare di evitarli’.
Un pensiero che ritorna prima di ogni partita.
‘Prima di entrare in campo, penso sempre alle persone a me care, perché credo che loro ti possano dare sempre una forza in più’.
Forse non tutti sanno che Andrea Bacchetti…
‘Piccolo segreto, dopo tanto tempo. Durante una partita, dopo pochi minuti, mi sono procurato una piccola frattura, ma ci tenevo troppo a restare in campo e dare sostegno ai miei compagni, così ho stretto i denti e ho comunicato l’infortunio allo staff solo alla fine del match, che tra l’altro abbiamo anche vinto. Ma non chiedetemi quale partita fosse, perché è un piccolo segreto che resta qui con me. Forse, a fine carriera…’.
Il suo prossimo obiettivo?
‘Dare il massimo per la maglia che indosso e cercare di giocare più partite possibili, segnando più mete che posso. Penso a stagione per stagione, settimana per settimana, partita per partita e poi, chissà… raggiungere le 200 presenze potrebbe essere il prossimo traguardo, ma intanto penso a vincere la prossima partita’.
Un giudizio sulle Fiamme di quest’anno.
‘Rispetto alla passata stagione siamo cambiati. La rosa si è arricchita di giocatori di livello assoluto, come pure lo staff, di livello professionale altissimo. Tutti insieme cercheremo di arrivare il più lontano possibile. L’unica cosa che posso dirvi con certezza, è che daremo battaglia sempre e faremo capire a tutti che affrontare le Fiamme Oro non sarà una passeggiata per nessuno’. (foto profilo Facebook Andrea Bacchetti)

Mitre10 Cup. Tasman. Casa. La vita agli antipodi di Giovanni Ghelfi

‘Quando guardiamo qualche partita in televisione a casa, sento mia suocera fare dei commenti di uno spessore tecnico degno dei migliori coach. E’ chiaro che qui il gioco è una seconda natura’. Per Giovanni Ghelfi invece la Nuova Zelanda è una vera e propria (seconda) casa. Mantovano, classe ’73, all’amore per il rugby Giovanni affianca anche quello per Vieve, figlia di Aotearoa, con la quale in questi mesi ha deciso di tornare laggiù. Dopo l’esperienza in qualità di Liason Officer dei Baby Blacks durante il Mondiale italiano del 2015. Giovanni nel tempo ha continuato il suo personale cammino con la palla ovale, diviso tra Mantova e la terra della grande nuvola bianca. Un percorso che, quest’anno, lo ha inoltre portato a vivere il Mitre10 Cup da una prospettiva privilegiata grazie ai Tasman Makos di Leon MacDonald.
Giovanni, è sempre ben saldo il suo rapporto con la Nuova Zelanda.
‘Sì. Quest’anno, dopo l’ennesimo intervento al ginocchio, ho deciso insieme a mia moglie Vieve di trascorrere qualche mese in Nuova Zelanda dai nonni materni, che tra l’altro non vedevano l’ora di trascorrere del tempo con nostra figlia. ‘Grand Dad’ John è inoltre il fisioterapista del Marlborough Rugby, così mi ha seguito durante la riabilitazione’.
Ritorno in Nuova Zelanda a poco più di un anno dall’incoronazione come campione del Mondo con i Baby Blacks.
‘Un’esperienza che rimarrà sempre viva in me, dal punto di vista umano e professionale. Se vogliamo, anche una svolta personale come allenatore per le idee che mi hanno trasmesso allenatori e giocatori’.
E’ ancora in contatto con alcuni ragazzi conosciuti in Italia?
‘Appena arrivato a Blenheim ho contattato Leon MacDonald, parte dello staff degli Baby Blacks in Italia. Mi ha accolto con grande disponibilità e generosità, come accade solo con le vere grandi persone. Ovviamente, tra un caffè e l’altro, abbiamo parlato di rugby e mi ha illustrato il progetto tecnico che avrebbe sviluppato durante la stagione di Mitre10 Cup con Tasman’.
Stagione che poi lei ha vissuto interamente con la squadra.
‘Sì. Avrei dovuto lasciare la Nuova Zelanda a fine estate, poi però alcuni aspetti familiari, tra i quali il matrimonio di zia Niki a dicembre, ci hanno fatto decidere di rimanere più a lungo’.
Quindi, porte aperte al mondo Tasman Makos.
‘Sono stato invitato a partecipare alla loro vita quotidiana. Allenamenti, riunioni, partite, insieme a Leon MacDonald e Mark Hammet, due campioni veri e propri’.
Un pensiero sul Mitre10 Cup.
‘Quest’anno sono state adottate alcune regole sperimentali e per questo, la necessità di adattamento, è stata una qualità chiave di molte squadre. In questo MacDonald e il suo staff sono stati maestri. Si tratta di sfaccettature, piccoli dettagli che fanno un’enorme differenza e anche se le regole non rimarranno, l’esercizio di adattamento è prezioso per qualsiasi situazione in campo. Per esempio, sto studiando assieme ai Makos un nuovo modulo d’attacco e una nuova ridistribuzione che crea più opzioni. Semplice. Pragmatica. Efficace’.
Come è andata la stagione con Tasman, sconfitta solo in finale da Canterbury?
‘Tasman aveva iniziato la stagione a rilento, complice anche la giovane età del team. Poi però si è ripresa, cominciando a vincere grazie a combattività e attitudine. Abbiamo vissuto la storica vittoria contro l’attrezzatissima Auckland (prima volta di sempre) 31-49 e la vittoria record contro Southland 56-0. In quell’occasione ero anche nel box degli allenatori. Attacco sempre più brillante e una delle migliori difese del torneo’.
Considerati i tanti anni di rapporto con il rugby neozelandese, cosa c’è secondo lei alla base di un movimento di così grande successo?
‘In Nuova Zelanda non si improvvisa niente. Il lavoro è frutto di un programma lucido e chiaro fin dall’inizio. Per esempio, durante la regular season Tasman ha perso 45-14 da Canterbury, che vantava una rosa da capogiro, tra All Blacks e giocatori di Super Rugby. Ma alla fine abbiamo comunque raggiunto la finale, grazie a tutto il lavoro svolto durante le settimane’.
Un’esperienza che arricchisce anche il suo bagaglio tecnico.
‘Vedere come vengono preparate le partite mi riempie di entusiasmo, di passione, di gratitudine. E’ un’iniezione di umiltà ma anche di rugby ad altissima professionalità’.
Cos’è la Nuova Zelanda per Giovanni Ghelfi?
‘Sono quasi vent’anni, metà della mia vita, che esploro questo arcipelago, la sua gente, la sua cultura, il suo rugby. Adesso anche qui è casa. Ho frequentato il primo corso da allenatore alla House of Pain Carisbrook, nel 1999. Poi, nella House of Pain, ho giocato (e allenato) persino una partita con i miei Taieri Colts, il club di Brad Thorn, contro Southern, nel campionato metropolitano di Dunedin. Certamente le cose cambiano, la vita è un po’ più ‘continentale’ di 20 anni fa. Rimangono però quegli aspetti caratteristici di questo luogo affascinante dove si va diretti alla sostanza e c’è poco spazio per il resto. Un’altra caratteristica è la cosiddetta ‘Kiwi ingenuity’, pragmatismo forse messo insieme con il filo di ferro, ma molto efficace. Ovviamente il tutto si rispecchia anche nel gioco’.

A tu per tu con Norberto Cacho Mastrocola, narratore della palla ovale

Una telefonata che, a Norberto, ha cambiato la vita. ‘Era il dicembre 1985. A chiamarmi era Lorenzo Bonomi, allora General Manager del Rugby Brescia che, in un francese ‘maccheronico’, mi convinse al trasferimento in Italia, offrendomi la possibilità di essere retribuito per mettere in campo la mia passione’. Lo scenario, vissuto fino a quel momento da una prospettiva amatoriale, muta radicalmente. ‘Ero venuto in Europa per un’esperienza sia rugbistia che professionale, considerati i miei studi contabili in Argentina. E improvvisamente…’. Norberto Mastrocola inizia così a scrivere la sua storia con il rugby italiano. Brescia, poi Livorno. Prima però, la parentesi francese. Al Bordeaux e al Racing Club. ‘Dopo quattro anni in Francia – racconta Cacho -, ho cominciato a pensare al futuro lavorativo, considerato che il mio status di straniero non mi permetteva di trovare un’occupazione nel settore per il quale avevo studiato’. A favorire questo percorso, una trasferta della Francia di Jacques Fouroux in Argentina, durante la quale Norberto guida i francesi tra les calles di Buenos Aires vestendo i panni dell’accompagnatore non ufficiale. Fino al giorno del match, giocato allo stadio Ferro Carril Oeste. ‘Seguivo la partita accanto alla panchina di Fouroux – ricorda Cacho -, quando un giornalista e fotografo argentino che lavorava a Roma per la stampa spagnola mi chiese se avevo la doppia cittadinanza, così da potermi contattare nel caso qualche club italiano avesse bisogno di un rinforzo straniero’. Cittadinanza che Mastrocola aveva, grazie alle origini abruzzesi di nonno Rocco (di Guardiagrele, provincia di Chieti). Quel giornalista si chiamava Carlos Alberto Martinez Lopez, ultimo tassello nel mosaico sportivo di Mastrocola nonché chiave necessaria per aprire la porta ovale tricolore. Nel tempo Norberto è diventato un rugbyman a 360°, narratore della palla ovale, giornalista appassionato che, dalla base al vertice, racconta quotidianamente le vicende del rugby italico. E pazienza se l’accoglienza italiana non è stata tra le più calorose. ‘Dovetti convivere con le polemiche di alcuni dirigenti del Calvisano che non ritenevano corretto l’impiego di un giocatore straniero’, ricorda con il sorriso. Oggi però, a distanza di 20 anni, parafrasando le sue stesse parole e ricordando come tutto è iniziato, non sarà difficile strappargli un autentico…‘abbiamo vinto’.
Cacho, al suo arrivo in Italia non venne accolto con grande calore…
‘C’erano diversi dirigenti che contestavano il flusso di italo-argentini in Italia. La cosa più curiosa è che loro stessi negli anni hanno poi continuato a farne uso e abuso’.
Al termine della sua carriera agonistica, ha deciso di rimanere in Italia. Cosa c’è alla base di questa scelta?
‘Un progetto di vita, sia lavorativo che familiare. Non pensavo solo alla mia carriera da rugbista quando ho accettato di venire in Italia’.
Dal rugby di base al vertice, il suo progetto coinvolge tutte le categorie della palla ovale italiana. Come è nato?
‘Circa 18 anni facevo parte di un programma dedicato al rugby in una televisione locale, nel bresciano. Era un telegiornale multietnico, che conducevo nella mia lingua madre. Così facendo, avevo la possibilità di informare tutte le persone spagnole e latinoamericane, in Italia, parlando la mia lingua d’origine. Dopo quelle prime esperienze è nata in me la voglia di divulgare questo sport e la mia passione per la palla ovale’.
Negli anni in Italia, ha vissuto l’evoluzione di questo sport, prima come giocatore, poi allenatore e quindi come giornalista. Qual è la sua opinione in merito al cammino del rugby italiano?
‘E’ un cammino in salita. In Italia non credo che il rugby sia valorizzato e diffuso in maniera adeguata, considerato anche la potenzialità dei giocatori e le tradizioni sportive italiane. Il rugby fatica a emergere inoltre perché manca di un contesto fertile per poterlo sviluppare; non c’è neppure una grande quantità di gente che lo segue’.
Uno sguardo all’Eccellenza di quest’anno.
‘Il giudizio per ora è positivo. Molte squadre si sono rinforzate, anche come staff tecnico. A livello societario la situazione è più complessa: gli sponsor che si impegnano con le squadre non hanno un adeguato ritorno commerciale degli investimenti fatti’.
Vede una soluzione a questo problema?
‘Bisognerebbe puntare sulla formazione del personale societario, sia manageriale che sportivo, in modo da aumentare le competenze dei dirigenti’.
Da dove nasce la voglia di raccontare questo sport?
‘La passione per il rugby è stato un colpo di fulmine. La squadra dove giocava mio fratello Carlos non aveva abbastanza giocatori per iniziare una partita. E rischiava di essere penalizzata. Così mi chiesero di scendere in campo. Ho sempre amato gli sport di contatto ma, come per tanti argentini, il mio sport preferito al tempo era il calcio’.
Poi la palla ovale ha fatto il resto…
‘Con il rugby ho scoperto il modo di vivere il gruppo, tutti insieme. Il valore del ‘dare prima del ricevere’ nei confronti del club di appartenenza. E poi il coraggio, il sacrificio, l’altruismo, il rispetto dei compagni, dell’avversario e delle regole, tutti ingredienti che hanno aiutato la mia crescita, di giocatore e di uomo. Ecco perché ho voluto continuare a raccontare questo meraviglioso sport’. 
Diamo uno sguardo all’Argentina. Negli ultimi anni i Pumas (e il rugby albiceleste in generale) hanno vissuto una grande crescita.
‘In Argentina, da sempre, lo spirito di gruppo è molto forte, il club viene visto come una vera seconda casa e questo permette di aumentare il numero di giocatori. Dalla quantità è poi emersa la qualità.  Anche la mentalità federale è cambiata, diventando da dilettantistica a professionale; questo ha portato alla nascita di un gruppo di giocatori di alto livello. Tutto è stato possibile grazie alla voglia di emergere e all’orgoglio nazionale targato Pumas’.
Torniamo in campo per un ultimo passaggio. Con quale avversario si divertiva a giocare?
‘Mi ricordo in particolare Kirwan e Campese, del quale ho ammirato la grande abilità, la potenza e la capacità di gioco’.
E un compagno?
‘Hugo Porta, grande capitano della nazionale argentina. Lui è stato un talento puro, un trascinatore sia per le grande qualità tecniche che umane. Poi, ho avuto anche la fortuna di giocare insieme ai miei fratelli, Claudio ed Horacio’.

La scheda

Nato a Buenos Aires il 15 aprile 1953, Norberto Mastrocola inizia a giocare a rugby a 17 anni nel Los Pinos (club di terza divisione). Prima stagione in under 18 e poi salto in Prima Squadra. Le sue qualità non passano inosservate e nel 1976, grazie all’aiuto di un amico, Norberto ottiene un provino per il Banco Nacion, club di prima divisione, dove giocherà fino al trasferimento in Francia, nel 1983. Nel frattempo nel 1977 eccolo in campo a Buenos Aires con una seleziona nazionale a  sfidare la Francia di Jean-Pierre Rives mente l’anno successivo è protagonista in Europa durante una tournee in Inghilterra, Galles, Francia e Spagna. Nel 1981 poi, il suo team si rinforza con giocatori della Nazionale per una tournee in Sud  Africa. Giocheranno con il nome dei Los Toros, considerato il pieno periodo dell’Apartheid.

L’arrivo in Europa avviene nel 1983 grazie a un amico musicista (e rugbista) conosciuto in Argentina che facilita il suo passaggio al Bordeaux Etudiant Club (terza divisione). L’offerta del club è ottima (eccezion fatta per il biglietto aereo, a carico di Chaco…): vitto, alloggio, lavoro part-time e iscrizione a un corso universitario per stranieri per imparare il francese.

L’esperienza a Bordeaux dura due stagioni, prima del trasferimento a Parigi, nel Racing Club de France (allenato da Robert Paparemborde).

In Italia Norberto arriva nel 1985 grazie alla chiamata del Rugby Brescia, alla ricerca di un giocatore di esperienza che possa aiutare il team nella difficoltosa poul retrocessione, obiettivo raggiunto nel derby salvezza contro Calvisano.

L’esperienza europea non ha comunque impedito a Mastrocola di mantenere ben saldo il suo rapporto con l’Argentina. Alla fine della stagione – e a salvezza ormai conquistata – eccolo di ritorno a casa per giocare con il suo Banco Nacion e contribuire, insieme al compagno e amico Hugo Porta, alla conquista del titolo.

Il rapporto con Brescia è comunque ben saldo e Cacho gioca altre due stagioni con la compagine lombarda di Elvio Simonato. Dalla poul salvezza a quella scudetto il passo è breve e nel 1987 il pack del leader Mastrocola guida il team alla poul tricolore.

Nella stagione successiva ecco il trasferimento al Livorno di Marco Bollesan (rimarrà in Toscana per due stagioni) prima dell’ultima esperienza di campo con l’Arix Viadana (con i mantovani promozione in Serie A2).

Terminata la carriera agonistica Norberto Mastrocola inizia quella di allenatore ottenendo il terzo livello federale e collaborando con diverse squadre del bresciano come il Fiumicello, il Botticino e lo stesso Brescia, società per la quale allena l’under 16 e veste i panni di Direttore Sportivo nella stagione 2000/2001, prima che la fusione con il Rovato porti alla nascita della Leonessa Rugby.

Attualmente conduce il programma Tutto Rugby Tv per Brescialivetv.it, dove racconta tutte le sfumature del rugby italiano, dalla base al vertice. (foto di Stefano Delfrate)

Frattura al collo. Tumore alla bocca. E ora Rio. L’incredibile storia di Jillion Potter, l’indistruttibile

L’hanno già soprannominata ‘Indistruttibile’. Perchè altro aggettivo non renderebbe giustizia alla vita di Jillion Potter, capitana della Nazionale femminile di rugby Seven statunitense, pronta all’avventura olimpica di Rio. Sì perchè se sopravvivi a una seria frattura cervicale, a una rara forma di tumore alla bocca e a otto durissimi mesi di chemioterapia per poi tornare in campo e giocarti l’Olimpiade altro non puoi essere, se non indistruttibile. E’ incredibile la storia della 29enne di Austin, cresciuta a La Cueva High School (New Mexico) e che agli allenamenti di basket ha voluto affiancare anche la palla ovale. Amore sbocciato grazie al rugby a 15 prima e al Seven poi. Nel mentre però, due duri colpi hanno rischiato di cancellare il suo sogno ovale. Per sempre. Nel 2010 una frattura cervicale della vertebra C 5, infortunio dal quale si è ripresa tornando a calcare quel campo verde che non ha voluto abbandonare nemmeno dopo la tremenda diagnosi ricevuta nel 2013: rara forma di tumore alla bocca. ‘Quando ricevetti la notizia, ero scossa, ma non piansi – ricorda la giocatrice a stelle e strisce -. Tutto quello che sapevo è che non volevo dirlo a mia mamma. Fu un periodo molto duro…’. Ma la natura guerriera di Potter l’ha aiutata nel faticoso cammino in ospedale. Percorso durante il quale anche il rugby ha svolto un ruolo chiave. ‘Il rugby mi ha insegnato la disciplina, la mentalità vincente, il duro lavoro e l’integrità. Tutti aspetti chiave nella mia lotta contro il cancro’. Conosciuta la sua storia, anche World Rugby ha voluto far sentire la sua vicinanza all’atleta, realizzando un video emozionale dove molte giocatrici hanno espresso sostegno e vicinanza alla compagna (‘ce la farai’, ‘ci rivedremo in campo’, ‘non mollare’, ‘sei una guerriera’, ‘sorridi sempre’, ‘siamo con te’, alcuni dei messaggi lanciati dalle giocatori di tutto il mondo, passandosi l’ovale); il video, collegato a una campagna di crowdfunding è servito per raccogliere 30.000 Dollari, poi donati alla Jillion per i suoi trattamenti ospedalieri. Cure terminate la scorsa primavera, in tempo per indossare nuovamente scarpe con i tacchetti e la divisa della Nazionale in vista di Rio. Obiettivo che, in fondo al cuore, Jillion Potter ha sempre saputo di poter raggiungere.

 

La straordinaria storia di Andrea Portioli. Insegnante di rugby nel paese del calcio…

Un anno in giro per il Sud America a insegnare rugby. Tra spiagge, parchi e panorami mozzafiato. Una borsa riempita da un pallone ovale e dalla voglia di vivere un’esperienza unica. Incredibile.  E’ la straordinaria storia di Andrea Portioli, colonna del Rugby Mantova che nel 2012 ha lasciato a casa camicia e cravatta, usate abitualmente nel suo lavoro in banca e si è imbarcato per l’America Latina.

ORDINE E PROGRESSO

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Brasile, la sua prima destinazione. ‘Un paese splendido’, ricorda con piacere Andrea Portioli, che nel frattempo è tornato alla sua routine quotidiana e a insegnare rugby nell’ambiente mantovano. Un’avventura iniziata al tempo con un messaggio su Facebook. Al Vitória Rugby Club. ‘Mi trovavo in città, così ho deciso di contattare il club, offrendo la mia esperienza come allenatore. Nel giro di poche ore ero già in campo a seguire l’allenamento’. Sono bastati pochi minuti ad Andrea per farsi un’idea del lavoro da svolgere. ‘Nonostante il livello, non eccelso, ho trovato grande umiltà e voglia di imparare da parte di tutti – afferma Portioli -. Al termine del primo colloquio con capitano e presidente ci siamo accordati per un periodo di prova, che sarebbe avvenuto poche settimane più tardi, di ritorno dalla mia permanenza a Rio de Janeiro’. Arriva dunque febbraio, un periodo di rodaggio con il club e la volontà di impostare un lavoro a medio-lungo termine, per cercare di migliorare aspetti tecnici ancora troppo carenti. ‘La loro filosofia si basava principalmente sul gioco al tocco – svela il coach -, ma mio avviso andava contro i principi del nostro sport. Fermarsi quando in realtà bisogna accelerare, usare le braccia anziché le spalle per placcare. Una squadra gioca come è allenata e durante le partite bisogna placcare, non toccare l’avversario’. Annotata la prima sfida da vincere, ecco presentarsi subito la seconda. ‘Non ci allenavamo in un campo di gioco – continua Portioli, mentre un sorriso si disegna sul suo volto al ricordo delle sedute -, ma in un parco. L’illuminazione dipendeva dai lampioni dei viali e al calar del sole non vedevamo più niente’. Nonostante le difficoltà logistiche, però, il lavoro procede. Il coach mantovano imposta un progetto con il club brasiliano che coinvolge tutti gli aspetti della palla ovale.  ‘La curiosità dei brasiliani è impressionante – riconosce Portioli, che aveva lasciato temporaneamente Vitória per conoscere il Cile e far poi ritorno nella nazione carioca -. Non si tirano indietro davanti a nulla e provano a giocare in qualsiasi maniera. Anche senza basi rugbistiche. Guardano una partita, un video, poi si radunano e provano a giocare. Tante squadre nascono e scompaiono nel giro di poco. I brasiliani considerano il rugby un passatempo pensato per maneggiare un pallone diverso da quello rotondo e poi bere birra tutti insieme. Non c’è aggressività, preferiscono muovere la palla e divertirsi’.  Al Vitória Rugby Club però le cose cominciano a cambiare. La visione del coach italiano piace. I suoi programmi vengono presi sul serio ed è così che Andrea riesce a impostare un programma di lavoro ben strutturato. E anche i risultati non tardano ad arrivare. ‘Dopo la prima partita, persa in maniera confusionaria, il gruppo ha fatto quadrato e ha cominciato a vincere gare in serie’. Alla fine il Vitória vincerà tutte le partite. Quello di Andrea non è comunque un percorso semplice in una terra dominata dal pallone rotondo, dove il rugby sgomita faticosamente per essere conosciuto. ‘Nonostante mi fossi già calato nella realtà del club, molti ancora non avevano le idee chiare su questo sport. Quando mi presentavo come allenatore di una squadra di rugby, spesso rispondevano ‘Ah, sì,allenamento sera seniores 3 il football americano…’. Nel frattempo Vitória è diventata la nuova casa di Andrea Portioli. E la squadra, formata principalmente da studenti e professori universitari – ‘tanto è il bisogno di istruzione in Brasile che alcuni docenti avevano solo 28 anni’, così il mantovano -, segue con diligenza gli insegnamenti del coach italiano, punto di riferimento fondamentale nell’ambiente societario. ‘Già al termine delle prime due settimane il presidente, professore argentino di Lettere all’Università, voleva affidarmi anche la guida della squadra femminile, mentre l’allenatore della Seniores pensava di mandarmi São Mateus (230 km da Vitória) per rodare il club della zona’. Comincia così un nuovo capitolo della vita brasiliana di Andrea Portioli. Diviso tra Vitória e São Mateus, rugby maschile e femminile. ‘Le ragazze giocavano solo a sette – le parole di Portioli -; avevo a disposizione un gruppo organizzato, disciplinato, con un spirito e una capacità di apprendimento che raramente ho incontrato in squadre maschili. Tutte avevano esperienze anche in altri sport’. ‘Vinciamo il campionato carioca, arriviamo in semifinale nella tappa nazionale del Super 7 – prosegue – e due ragazze vengono convocate con la Nazionale Seven (e diventeranno poi campionesse sudamericane nel Seven)’. A São Mateus invece, c’è un gruppo di universitari da forgiare. E un ambiente straordinario da esplorare. ‘Per raggiungere la città, percorrevamo 230 km su strade dissestare, quattro ore di macchina immerse in paesaggi incredibili – il ricordo di Portioli -. Ci allenavamo su campi di sabbia per la maggior parte del tempo’. Anche São Mateus conosce la filosofia ovale di Andrea. ‘Per loro, così come per Vitória, ho scritto un manuale di gioco in portoghese, riportando il lavoro che facevamo quotidianamente con i giocatori’. Nel frattempo Vitória si prepara per le semifinali del torneo tra le proteste cittadine contro il Governo e i blocchi nelle strade, che impediscono ai giocatori di presentarsi al campo per gli allenamenti. allenamento giorno 2L’assenza dell’avversario il giorno del match spalanca le porte del club brasiliano alla finalissima, giocata con tenacia e determinazione e persa per un calcio di punizione fischiato contro a pochi secondi dalla fine del match. Il viaggio di Andrea Portioli prosegue poi a San Paolo, capitale del rugby brasiliano abitata da tanti argentini e inglesi. ‘Lì ho trovato caratteristiche simili a Vitória, ma più cultura rugbistica’. Nel cammino che lo porterà a conoscere lo SPAC Rugby, il Rio Branco e il club di Foz do Iguaçu (famoso per le sue cascate), Portioli ritroverà anche Martin Schaefer, giocatore conosciuto proprio a Mantova e diventato poi Nazionale brasiliano. ‘Il Brasile ha un potenziale incredibile considerato il numero di persone e le qualità fisiche che vanta – il suo saluto alla terra carioca -. I soldi non mancano e neppure la gente da coinvolgere. Purtroppo c’è un gap culturale importante e una scarsa conoscenza del nostro gioco’.

SEAN ETERNOS LOS LAURELES

Uno scenario opIMG-20150202-WA003posto a quello trovato in Argentina. Il suo percorso in Sud America, infatti, non è ancora terminato ed ecco dunque una nuova avventura nel paese albiceleste. ‘Grazie a un amico – il racconto del periodo argentino -, entro a far parte dello staff tecnico dell’under 16 del C.U.B.A. e Club Atlético de San Isidro. In Argentina il rugby è completamente diverso. I giocatori arrivano al campo in giacca, stringendo la borsa da lavoro con la mano sinistra e tenendo il pallone ovale in quella destra’. L’impatto, per Andrea, è impressionante. ‘Ricordo il primo allenamento con il C.A.S.I.. 90 ragazzi casse ’96, 3 squadre. Un capo allenatore e uno staff di altri cinque coach, più il preparatore. In Argentina ho conosciuto organizzazione, disciplina e cultura sportiva di altissimo livello. Al C.A.S.I., in qualità di coordinatore ho ritrovato anche Josè Pellicena, ex numero nove e capitano del Parma’.

URUGUAY, LA PICCOLA ARGENTINA

Dopo Brasile e Argentina, IMG-20150202-WA004c’è un’ultima tappa nel diario di viaggio di Andrea Portioli: l’Uruguay. ‘E’ una piccola regione autonoma dell’Argentina – sostiene -, con un campionato nazionale, il Super 9, di ottimo livello’. L’esperienza con il Trebol Rugby di Paysandú però è diversa rispetto alle precedenti vissute in America Latina. ‘In Uruguay ho collaborato alla stesura di una tesi sui valori del rugby, sulle differenze tra gli altri sport. Temi interessanti e tutt’altro che banali’.

 

In fondo, come la vita di Andrea Portioli.

Con Leopoldo all’Osteria…

Leopoldo Scarnecchia e lo chef Giaccio avvocato che ha cambiato vita
Leopoldo Scarnecchia e lo chef Giaccio

La storia che vogliamo raccontare oggi è un po’ diversa dal solito. E’ la storia di un ragazzo che da giovane promessa, con un contratto tutto sommato anche interessante, ha poi scelto di cambiare vita, abbandonando forse troppo presto i sogni di gloria per qualcosa di più concreto. Un rugbista passato attraverso anche gli infortuni, il fallimento della Rugby Roma, il ritorno sui campi della B e ora un imprenditore: Leopoldo Scarnecchia.

Ciao Leopoldo, eri una promessa del rugby romano e poi sei sparito dalle cronache. Ora dicono tu faccia il ristoratore, com’è successo?
«Diciamo che dopo il fallimento della Rugby Roma non ho trovato nulla di veramente stimolante in giro, avevo capito che il rugby era cambiato e che non poteva più sostenere la mia vita. Quindi la scelta migliore è stata iniziare a lavorare. Prima nell’azienda di famiglia, settore abbigliamento, poi da solo nell’edilizia e ora nella ristorazione con mio padre. Tuttavia l’impresa edile però è sempre attiva e la seguo ancora».

Eri un’ala potente, ma anche un’pò sfortunata, cosa sei ora?
«Sono un imprenditore che segue le orme della famiglia e di mio padre, Nicola, punto di riferimento della mia vita»

Cosa significa il rugby per te?
«Ora è il mio passato, ma sarà sempre con me. Mi ha fatto diventare l’uomo che sono ora e come in campo, anche nel lavoro non mollo mai e do tutto».

E hai tuo bel da fare… Però qUest’estate sembrava dovessi tornare in campo con l’ambizioso Civitavecchia… hai mollato definitivamente lo sport giocato?
«Si. E’ stata una parte importante della mia vita, una parte bellissima che porterò sempre con me, ma ora non si può più giocare».

Già, gli impegni… ma imprenditore significa anche chef?
«Solo imprenditore, in cucina il camp è il nostro chef Lorenzo Giaccio, ex avvocato che ha avuto il coraggio di cambiare la sua vita e seguire la sua passione. Una persona fantastica che mette nel suo lavoro tutta la passione che ha dentro, ha proprio il profilo del rugbista che non molla mai. Ha lavorato in questo primo mese di vita del ristorante anche con 38 di febbre, e i piatti sono usciti alla grande. Il menù è tutto suo, con il mio appoggio e giudizio».

Ottimo, e che cucinate di buono?
«Menù tipico romano, rivisitato ed alleggerito nei condimenti, ma soprattutto è nella scelta dei prodotti che ricerchiamo il top, am rendendo sempre il conto finale competitivo con un mercato che – soprattutto in centro – è scarso di qualità e diretto alla trappola per i turisti. Da me l’italiano deve mangiare bene!»

E il rugbisti? Possono entrare?
«Devono! E’ un locale per tutti, un’osteria, quindi con l’ambiente giusto. Insomma i miei clienti si devono sentire a casa, cosa c’è di meglio per la filosofia di un rugbista?»

Già, che ne dici di un pensiero per gli amici di rugby mercato?
«Siamo apertiti tutti i giorni tranne il lunedì e se si presentano come amici di rugby mercato gli offro una birra o un amaro, come si fa tra amici»

Si, ma non abbiamo ancora detto dove… o sbaglio?
«Già! Il ristorante si chiama “POLDO E GIANNA OSTERIA”, in onore dei miei nonni, e si trova a Roma in vicolo Rosini 6/7 zona Campo Marzio, vicinissimo a Piazza del Parlamento. Ci possono trovare su Facebook e su TripAdvisor!»

Poldo e Gianna Osteria a Roma

Ti cercheremo di sicuro, e non appena a Roma ti verremo pure a trovare… dopotutto sono una buona forchetta…
«Ti aspetto! E spero di non avervi annoiato con questa mia storia…».

No, anzi! Credo sia un esempio su cui riflettere, una sorta di spartiacque tra un professionismo che fu, con l’illusione di poter vivere di solo rugby, e l’attuale dimensione del campionato italiano. Dove i giocatori possono divertirsi, fare esperienze anche di altissimo livello, ma devono comunque investire su se stessi. Ed ad un certo punto fare delle scelte. Nonché affidarsi a qualcuno di serio, che li possa consigliare bene.

E poi… a dirla tutta, per me “l’avvocato Giaccio” è già un mito! Quando me lo fai conoscere?

A tu per tu con Elliot Sharp: dal Saint Kentigern College a Mantova. Storia di un maestro della formazione di atleti

Dalle sue parti, sono cresciuti giocatori del calibro di Joe Rokocoko, Jerome Kaino, John Afoa. Campioni svezzati dal famoso Saint Kentigern College, potenza assoluta nel rugby scolastico neozelandese. E lui, Elliot Sharp, è l’allenatore della prima squadra. All’Italia lo lega un’esperienza nel Rugby Mantova, quando ancora la vocazione di allenare era soffocata dalla passione del giocatore. Crescendo Elliot, formatosi nelle giovanili di Waikato e nell’accademia dei Waikato Chiefs, ha prediletto la carriera di insegnante affiancata alla voglia di formare giovani atleti. E’ così diventato uno dei migliori allenatori della Nuova Zelanda, collezionando un Sannix World Championship nel 2012, 4 titoli 1A con gli Auckland Blues, 3 titoli nazionali Co-Education e 1 titolo nazionale neozelandese nel 2013. Ma per una formazione completa Sharp ha poi deciso di studiare il rugby europeo, nello Yorkshire e in Scozia, a Edimburgo. Sempre a livello giovanile. Poche settimane fa, complice un’amicizia sempre viva con il Rugby Mantova, eccolo in Italia per un clinic specifico con gli allenatori durante il quale, insieme alle attività di campo, Elliot ha avuto modo di riabbracciare nuovamente tanti suoi cari compagni di squadra.
Elliot, come è andato il periodo trascorso in Italia?
‘Molto bene! Ho un ottimo rapporto con Mantova e un profondo rispetto per il club, conosciuto da ragazzo quando avevo 18 anni’.
Quale rapporto lega il Rugby Mantova con il Saint Kentigern College?

‘Ogni due anni due giocatori del Saint Kentigern vengono ospitati a Mantova, dove giocano la loro stagione. La stessa cosa avviene con due giocatori del Mantova che vivono un’esperienza in Nuova Zelanda’.
Un rapporto solido che dura da anni ormai…
‘Voglio dare una mano affinché il Mantova Rugby continui a crescere e farò quanto possibile perché questo avvenga. Sono grato ai dirigenti del club per questa continua collaborazione’.
Tradotta anche nell’ultimo clinic che avete fatto con gli allenatori.
‘Tutto è stato gestito alla perfezione: un confronto di tecniche e idee tra allenatori molto preparati. Sono momenti di grande valore per ogni coach, che ha così l’opportunità di discutere le proprie idee con i colleghi. Un’esperienza simile a quella fatta in Scozia, quando la federazione aveva organizzato un workshop durante il quale gli allenatori si sono confrontati su diversi temi che riguardavano il gioco’.
Cosa le lascia l’esperienza di Mantova?
‘La motivazione e la voglia di organizzare altre opportunità così in Nuova Zelanda. L’idea di aiutare i club, come il Mantova, in aree quali sviluppo degli allenatori, sviluppo e ricerca di atleti’.
Che idea si è fatto del rugby italiano?
‘Le squadre giocano con tanto entusiasmo. Molti giovani atleti mi hanno impressionato: voglia, attitudine, determinazione nell’imparare sono le stesse che ho visto in tanti atleti in Nuova Zelanda’.
Qualche elemento di criticità?
‘A volte ho notato troppa fretta nel voler crescere e fare progressi, sia nei giocatori che negli allenatori. In questo modo si rischia di non allenare a dovere i fondamentali di questo sport. Credo che un equilibrio sia importante per mantenere i giocatori focalizzati sui propri obiettivi mentre imparano tutte le skills, anche sotto pressione, per poi prendere le giuste decisioni durante la partita’.
Un argomento affrontato durante il clinic?
‘Sì. Ho cercato di incoraggiare gli allenatori a focalizzarsi su determinate skills, piuttosto che cercare una rapida crescita; inoltre, ad avere coerenza tra le differenti categorie in merito ai programmi da seguire, così da trasmettere ai giocatori il medesimo messaggio. Questo certamente li aiuterà a capire la filosofia del club. Dall’altro punto di vista, credo che ogni allenatore dovrebbe cercare in squadra il proprio ‘allenatore-giocatore’: un atleta che si adatti alle sfide, ascolti il coach e lavori sodo per creare un ambiente positivo’.
Quale è la vostra filosofia al Saint Kentigern College?
‘Una delle ragioni principali del successo del College è la condivisione della cultura e della filosofia sportiva tra i club e il sistema scolastico, aspetto dal quale gli stessi giocatori traggono beneficio. Cerchiamo di creare un ambiente rivolto all’apprendimento e alla crescita, una cosa significativa sia per i giocatori che per gli allenatori’.
Come viene ‘creato’ questo ambiente?
‘Ogni anno viene tracciata una ‘mappa’ dove è chiara la  direzione verso la quale si vuole andare. Da qui, possiamo identificare le aree che vogliamo sviluppare, tecniche, tattiche, di leadership’.
Un programma professionale e accurato…
 ‘Siamo convinti che creando questo programma, la nostra identità si forma e cresce. Se riusciamo a raggiungere gli obiettivi prefissati, i giocatori e i dirigenti si sentono responsabilizzati già dal principio. La nostra filosofia punta alla preparazione, ogni settimana; incoraggia i giocatori a ‘studiare’ le partite e trasmette agli stessi – ai dirigenti e in generale a tutto l’ambiente – il significato di essere un giocatore del Saint Kentigern College.
Elliot SharpIl vostro modello potrebbe essere utilizzato in Italia?
 ‘La Federazione Italiana Rugby ha l’enorme responsabilità di provvedere allo sviluppo dei club non professionistici e degli allenatori. Quasi tutti i dirigenti e i coach di queste piccole società sono volontari – spesso genitori dei ragazzi o ex giocatori – che offrono il proprio tempo libero per la società’.
Come si gestisce un quadro così?
‘E’ una situazione che ho già affrontato durante il mio periodo in Scozia. Alla federazione scozzese avevo consigliato dei percorsi per i club, da corsi specifici per gli allenatori a possibili consulenze esterne. Si erano dimostrati molto disponibili e aperti alle collaborazioni’.
Una strada percorribile anche in Italia?
‘L’input della Federazione è significativo per lo sviluppo di questi club e dei propri allenatori. Con un ‘aiuto esterno’ limitato, mi riferisco a corsi, collaborazioni, piani di sviluppo, i volontari che operano per le società rischiano di veder limitata a loro volta la propria azione. Se le società non sono in grado di costruire il proprio piano d’azione, questo alla lunga potrà creare confusione anche tra gli stessi giocatori. Messaggi differenti, azioni contraddittorie, con il risultato di fallire nel percorso di crescita o peggio perdere i propri atleti’.
Parliamo dello sviluppo di un allenatore…
‘Ci sono molti modi per apprendere le tecniche di allenamento. Uno di questi è internet. Uno strumento fantastico, ma che può diventare dannoso se non lo si usa con cura’.
A cosa si riferisce?
‘Troppe volte ci si concentra sul ‘cosa allenare’ e non sul ‘come allenare’. Skills, tecniche, esercizi, tutti strumenti utili e fondamentali per una seduta di allenamento. Spesso però non si pensa alle capacità del giocatore di eseguire l’esercizio o alle sue abilità di prendere una decisione. La vera arte del successo, a mio avviso, è legata al ‘come’: questo permette di trovare la via migliore per favorire lo sviluppo dell’atleta e il raggiungimento dell’obiettivo prefissato’.
Molta importanza dunque, viene rivolta anche agli stessi giocatori.
‘Questo è un concetto che abbiamo trattato anche durante il clinic. Uno degli obiettivi degli allenatori dovrebbe essere quello di conciliare il piano di gioco con il profilo dei rispettivi atleti. Se si vuole sviluppare il gioco in una determinata maniera, bisogna assicurarsi che i giocatori abbiano quelle specifiche capacità per rispondere alle esigenze del gioco. Molti programmi falliscono in questo punto. E penso che anche i giocatori dovrebbero essere molto chiari in merito al proprio percorso di apprendimento’.
Riguardo i giovani giocatori?
‘Il reclutamento di nuovi atleti è un problema che riguarda molti paesi. Ci cono tante distrazioni per i giovani e l’obiettivo è quello di stimolare la loro attenzione. L’importanza di avere una buona cultura sportiva all’interno del proprio club è vitale. C’è bisogno di relazioni solide tra società e scuole, così come buoni sistemi di reclutamento. Una cosa che, per esempio, Mantova sta facendo molto bene’.

 

 

 

 

A tu per tu con Danie de Villiers: pioniere in Romania di un movimento che sta crescendo

Era uno dei pochi addetti ai lavori tutt’altro che sorpresi a fine giornata. ‘Il livello del rugby in Romania è molto buono. Certo, non ci sono così tante squadre come in Italia – la Super Liga rumena ha solo sei squadre -, ma la qualità delle prime 4 è veramente elevata’. Lui, Danie de Villiers, 43enne coach sudafricano, da tre anni frequenta i campi dell’Est europeo. Ingaggiato nel 2013 proprio da quei Timisoara Saracens balzati agli onori delle cronache italiane per averle suonate al Rovigo. ‘Non era nemmeno il Rovigo che conoscevo io, a dire il vero. Però credetemi, il livello del rugby in Romania è cresciuto molto’. A favorire lo sviluppo dei giocatori autoctoni, anche l’arrivo di tanti giocatori stranieri provenienti dall’Emisfero Sud. Così accanto ai nativi di Bucarest, Cluj e Timisoara, ecco atleti provenienti da Sud Africa, Tonga, Samoa, Nuova Zelanda, molti dei quali con esperienze tra ITM Cup, Currie Cup e Super Rugby. ‘Nei miei tre anni in Romania – continua de Villiers -, ho lavorato con giocatori che hanno vestito le maglie di All Blacks, Samoa, Fiji, Tonga, Stati Uniti, Sud Africa, Namibia. Rispetto all’Italia, nel campionato rumeno è possibile schierare più giocatori stranieri’.
Danie, partiamo dall’ultima stagione al CSM Bucaresti, conclusa al terzo posto, ma con molti problemi dal punto di vista economico.
‘Mentirei se dicessi che è stato un anno semplice. E’ stata la sfida più dura di tutta la mia carriera. Abbiamo cercato di mantenere il focus sugli impegni di campo. E’ stata dura’.
Nonostante tutto, siete comunque arrivati alle semifinali.
‘Avevamo molte speranze all’inizio della stagione, con tre competizioni da affrontare. Personalmente, non ho mai allenato una squadra più forte di questa. Avevamo cominciato con il piede giusto, poi sono iniziati i problemi…’.
De VIlierisMolti dei giocatori sono poi stati convocati per la coppa del Mondo.
‘E poi hanno deciso di andare altrove. Oltretutto, abbiamo perso diversi giocatori durante la stagione, compresi membri dello staff’.
Defezioni proprio a ridosso delle semifinali.
‘Sì, ma nonostante questo, abbiamo mancato l’accesso a due delle tre competizioni per pochissimo. Siamo riusciti a metterci al collo la medaglia di bronzo del campionato. Posso dire di essere orgoglioso di come il gruppo è rimasto unito’.
Come è la vita in Romania? E la sua giornata tipo?
‘La Romania è bellissima, con molta storia alle spalle. Ci sono tanti posti affascinanti da visitare. Onestamente, con tre competizioni da affrontare, non ho mai avuto molto tempo libero. Diciamo che ci sono buone possibilità che mi incrociate in uno Starbucks a prendere un caffè. Probabilmente, in Romania, sono il loro miglior cliente…’.
Danie, quali sono i suoi obiettivi futuri?
‘Il rugby è la mia vita e mi ha permesso di vivere in posti incredibili, in tutto il Mondo. Spero di rimanere in questo ambiente, che mi ha insegnato tanto e dal quale sto ancora imparando. Credo di avere ancora molto da offrire al rugby’.
Vorrebbe tornare in Sud Africa?
‘Mi piacerebbe, ma al momento è difficile. Sono aperto a qualsiasi possibilità e disponibile ad andare ovunque. Anche a rimanere in Romania’.
Se Danie de Villiers non fosse diventato allenatore, che lavoro avrebbe fatto?
‘Amo il golf, ma non sono così bravo da poterne fare una professione. Mio padre era un bravo istruttore di cavalli e prima di diventare allenatore professionista lavoravo con lui. Ho una grande passione per i cavalli’.
In passato la ricordiamo anche per una stagione alla Rugby Roma. Quale ricordo conserva del rugby italiano?
‘La città più bella del Mondo. Non avrei mai pensato di poter vivere un’esperienza così bella in un ambiente con tanta storia attorno e tante cose magnifiche da vedere. La squadra era molto forte e pensavo che sarei rimasto con loro a lungo. Sono ancora in contatto con molti ragazzi conosciuti in Italia’.
Le piacerebbe tornare ad allenare in Italia?
‘Se capitasse l’occasione, non esiterei a tornare…’.

A tu per tu con Giovanni Ghelfi: Liason Officer dei Baby Blacks, straordinari campioni del Mondo tra caramelle e canti

Chissà cosa avr?????????????à pensato la gente di Colorno nel vedere un gruppo armadi di cento e passa chilogrammi danzare sul posto a una fermata dell’autobus. O vederli riempire al supermercato un carrello di caramelle gommose. Curiose pennellate di vita di un gruppo di ragazzi straordinario. Invincibile, dal punto di vista sportivo. Unico, da quello umano. I Baby Blacks, freschi campioni del Mondo, sono anche questo. “Impressionanti. Facevano il ripasso pre-partita alla stazione degli autobus tra una pensilina e l’altra, mimando una uscita dal frontale”. A raccontarli è Giovanni Ghelfi, Liason Officer della Nuova Zelanda ai recenti campionati del Mondo under 20. Un mese vissuto accanto al gruppo neozelandese, concentrato nell’inseguire l’unico obiettivo ammesso quando indossi la maglia nera con la felce argentata. Un mese di lavoro, avventure, sfumature di un mondo agli antipodi non solo dal punto di vista geografico, che Giovanni ha avuto l’onore (e il piacere) di conoscere in maniera ancor più intima.
Giovanni, a cosa servivano le caramelle gommose?
“Ne abbiamo comprato una quantità inverosimile, come se ci fosse una festa di compleanno per bambini delle elementari. In verità si trattava di ‘recovery food’ per fare rifornimento di glicogeno – riserva energetica muscolare – dopo uno sforzo. Questa scelta alimentare disinibita mi ha incuriosito”.
Come è stato vivere per diverse settimane accanto ai Baby Blacks?
“Come vivere un sogno. Ringrazio di cuore la Federazione per questa opportunità. Mi sono sentito esattamente come nel 1992, quando ho giocato nelle riserve del Rovigo di Checchinato, Botha, Ofahengaue”.
Un impegno molto importante…
“Sì, molto intenso. Spesso si raggiungevano le 19 ore di lavoro al giorno. Un grande drive, ma nessun problema. Poi non potevo deludere mio suocero John Chamberlain, neozelandese e fisioterapista del Marlborough Rugby per 25 anni. Una questione di famiglia insomma”.
Caratterialmente, come sono i Baby Blacks?
“Educati, molto umili e molto rispettosi. Grati di aver avuto questa opportunità. Molto focalizzati sugli obiettivi”.
Cosa le ha lasciato questa esperienza dal punto di vista umano?
“Sia i ragazzi che lo staff mi hanno accolto come uno di loro fin dal primo giorno. La relazione non ha potuto che crescere, anche perché l’head coach Scott Robertson ci teneva a che si creasse tra tutti i membri della squadra un clima familiare. Ho trovato umiltà, anche da giocatori di Super Rugby o dagli ex All Blacks dello staff,  grande rispetto reciproco e inclinazione a collaborare”.
E dal punto di vista sportivo?
“Il grosso lavoro era già stato fatto. In un torneo dove si gioca ogni 4 giorni, sono molto importanti recupero e ripasso, due aspetti dove i ragazzi mettevano il 100%. Loro adottano il metodo della leadership condivisa e della responsabilizzazione. E’ un metodo che ho avuto modo di sperimentare anche nel mio lavoro di allenatore e sono riuscito a carpire qualche idea in più”.
Sono così irraggiungibili i Baby Blacks?
“Ad alto livello ovviamente la genetica fa una enorme differenza, così come il duro lavoro. Quello però che distingue un atleta ‘world class’ sono piccole cose che tutti possono fare, a qualsiasi livello. Certo, fare 260 kg di squat richiede una certa dote genetica e molto duro lavoro, me fare invece un bagno di ghiaccio per recuperare più velocemente è una cosa che chiunque può fare. Avere un fisico da Super Rugby non è da tutti, ma rispettare un regime alimentare adeguato fa una enorme differenza a qualsiasi livello e non richiede doti particolari, se non un ferrato nutrizionista. Essere umili non è un dono di natura. E’ un modo di comportarsi così come essere leader. Tutti possono essere leader se istruiti a comportarsi in una certa maniera. Essere focalizzati è un approccio al lavoro che passa attraverso obiettivi specifici; tutti possono farlo, non solo le super star. E ancora, l’idratazione che influisce pesantemente sulla performance non è scienza complessa. Basta bere acqua per fare una enorme differenza”.
Tutti aspetti che appartengono già al bagaglio dei Baby Blacks…
“E’ la conseguenza di un vissuto ricchissimo ma, con una grande attenzione ai particolari e la tecnica mentale della visualizzazione, si possono fare passi da gigante. La tecnica è accessibilissima. Basta essere ‘capaci’ di sdraiarsi e rilassarsi e…avere un bravo allenatore”.   
Conosceva già qualcuno di loro, tra giocatori e staff?
“I 3 All Blacks dello staff, Robertson, MacDonald e Umaga. Nel 2009 ho lavorato alla New Zealand Sports Academy di Rotorua e quando Darrell Shelford ha sentito che sarei stato Liason Officer per i Baby Blacks mi ha detto che Te Toiroa Tahuriorangi, il mediano di mischia, era ‘un bravo ragazzo passato per la NZSA’. Effettivamente è stato uno dei grandi protagonisti di questo torneo”.
Quando ha capito che la Nuova Zelanda avrebbe potuto vincere il Mondiale?
“Tutti sapevano che faceva sul serio, grazie alla caratura dello staff e al valore della rosa. Tutto ruotava ‘sartorialmente’ attorno ai giocatori, con attenzione ai particolari in ogni aspetto della vita quotidiana dentro e fuori dal campo. L’esordio con la Scozia ha parlato chiaro nonostante la difesa dei ‘Cardi’ fosse di tutto rispetto come dimostrato nel resto del torneo. Quando la Nuova Zelanda muoveva la palla, soprattutto da fasi di transizione, comunicava la certezza che avrebbe vinto il torneo. C’è stato un momento però in cui ho capito che avrebbe potuto perdere. In finale, di fronte a un’Inghilterra quasi perfetta. Che partita!

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Un attimo che non dimenticherà mai…
“Dopo ogni partita, in cerchio, cantavamo ‘Hoki Mai’. Non solo conoscevo la canzone a memoria ma ho avuto modo di sciorinare la mia perfetta pronuncia maori; non capita nella vita di tutti i giorni. Le note di quella canzone porteranno sempre a ricordi meravigliosi”.
Parlando con i ragazzi, ha avuto modo di capire cosa hanno apprezzato dell’Italia?
“Gite non ne abbiamo fatte, tutto era rivolto al rugby. Lo staff ha apprezzato qualche avventura gastronomica in un paio dei migliori ristoranti di Parma, mentre ho sentito qualche ragazzo sorprendersi davanti a così tante belle ragazze. Una cosa però è stata apprezzata più di tutto – rugby escluso ovviamente -: il gelato! Talmente tanto che durante una riunione, agli atleti con una percentuale di massa magra non ottimale, veniva ricordato di non esagerare col gelato”.
Come sono stati accolti a Colorno?
“Benissimo: Colorno ha una struttura eccezionale. Il club ha messo in campo il meglio della vera ospitalità italiana con orgoglio, competenza, massima disponibilità e discrezione. Staff e giocatori hanno detto che a Colorno si sono sentiti veramente benvenuti. Si sono sentiti a casa. Non è un caso che si siano fermati ben 2 volte dopo l’allenamento per una grigliata in club house”.
Continuerà il rapporto anche in futuro con la Nuova Zelanda?
“Mi sento già molto fortunato ad aver partecipato alla campagna che ha portato la Nuova Zelanda alla conquista della Coppa del Mondo U20. E’ stata una esperienza molto forte che sicuramente legherà tutti i partecipanti per sempre…”.

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A tu per tu con Carlo Pratichetti: storia dell'ultimo gladiatore tricolore

Primavera del 2000. Poule Scudetto. La Rugby Roma sta ospitando la Benetton Treviso. “Gli spalti erano gremiti, noi con un uomo in meno in mischia e una punizione a sfavore, praticamente sotto i nostri pali. Treviso, invece di piazzare, chiese la mischia. Li cappottammo con un uomo in meno, e da li capimmo quale sarebbe stato il nostro traguardo…”. Nel ricordare quella battaglia Carlo Pratichetti si emoziona ancora. Sono passati 15 anni da quel pomeriggio, da quella stagione indimenticabile. Era la Roma di Ramiro Pez, di Andrea Lo Cicero, di Luke Gross. Ma sopratutto era la Roma di Carlo Pratichetti, tallonatore e guida dei bianconeri all’ultimo atto di una carriera vissuta sempre a casa (tra Roma, Cus Roma e Lazio) e coronata da un trionfo atteso 51 anni. “Prima della finale, la mia ultima partita – ricorda oggi -, Gilbert Doucet, l’allenatore, mi concesse l’onore di consegnare le maglie ai miei compagni. Un’emozione indescrivibile, indimenticabile”. Ottanta minuti dopo, un urlo squarciò il cielo della Capitale.
             
Carlo,  una carriera conclusa con il trionfo tricolore. Degno finale del suo cammino.
“Una stagione memorabile. Quell’anno la Rugby Roma era semplicemente imbattibile”.
Una vita da giocatore vissuta sempre a Roma…
“Sono nato su un campo di rugby. Mio padre giocava e io portavo la borsa a mio fratello Oreste. Parliamo del 1968. Il rugby è la mia vita, la mia passione. Dopo la famiglia, è tutto”.
Ha rimpianti come giocatore?
“Sinceramente no. Se fossi rimasto a Milano a giocare forse avrei avuto qualche presenza in più in Nazionale. Ma non importa”.
Anche la carriera da coach è iniziata a Roma. Cosa c’è del Pratichetti giocatore nel coach che è diventato oggi?
“In effetti ho allenato e giocato con tutte le squadre di Roma, in tutte le categorie. Però l’esperienza più importante l’ho vissuta con Massimo Mascioletti alla Capitolina. Tecnicamente con lui sono cresciuto moltissimo”.


Che allenatore è Carlo Pratichetti?
“Mi ritengo un allenatore atipico. Cerco di mettere i giocatori al centro del progetto di gioco rendendoli partecipi dal punto di vista tecnico, cercando di fargli capire che stanno giocando uno sport unico e meraviglioso. Dal punto di vista tecnico, puoi giocare in mille modi, ma ci vuole passione, attaccamento alla squadra e alla maglia che rappresenti”.
Nell’ultima stagione in Eccellenza, a Prato, siete stati un po’ l’outsider del campionato. Che stagione è stata?
“Meravigliosa! Sono stato benissimo con tutti. Prato è una città bellissima, con persone competenti e passionali; uno su tutti, Gabriele Lai. Abbiamo fatto una stagione molto intensa a livello emotivo e abbiamo giocato a sprazzi un rugby di alto livello. Ho avuto la fortuna di avere dei giocatori con le ‘palle’ vista la situazione e uno staff eccezionale”.
Il giocatore più forte che ha allenato in carriera?
“Christian Warner, apertura australiana. Arrivò a Roma dopo aver vinto l’Heinken Cup con il Leinster”.
La Capitale è rappresentata in Eccellenza da Fiamme Oro e Lazio. Ma manca un club storico come la Roma. Negli anni, tante società importanti (esempio Parma e L’Aquila che ha rischiato di sparire) hanno abbandonato il palcoscenico del massimo campionato. Come giudica questa assenza e questo ‘declino’ di molte squadre storiche?
“A Parma ci sono le Zebre che assorbono energie e attenzione. A L’ Aquila purtroppo molto è stato condizionato dal terremoto e le risorse sono sparite. Per Roma il discorso è un altro: tutti vogliono comandare il proprio orticello e forse la crisi economica nelle città grandi si sente di più. Inoltre, da parte della Federazione e del Comitato Regionale Laziale farsi scippare dal calcio un impianto come il Tre Fontane sarebbe un peccato enorme per tutto il movimento rugbistico italiano.
Quali sono i programmi futuri di Carlo Pratichetti?
“Sicuramente di continuare ad allenare. Ho un paio di progetti che mi piacerebbe sviluppare in qualche società”.
Che esperienza le piacerebbe vivere. E, in Italia, o all’estero?
“A Prato ritornerei, ma mi piacerebbe tantissimo fare un’esperienza in Veneto. All’estero, mi attira l’Inghilterra.
Il rugby italiano sta attraversano un periodo difficoltoso (non solo dal punto di vista dei risultati sul campo). A suo avviso, quale potrebbe essere il primo aspetto sul quale lavorare (giovani, accademie, campionati…)?
“Obbligherei tutte le società di Eccellenza ad avere un’under 20 che faccia lo stesso campionato delle prime squadre. Così facendo, si potrebbero integrare più facilmente i giovani e allargare le rose delle prime squadre per ricreare quel fascino di appartenenza al club e quella motivazione che – inutile negarlo – è la base di questo sport di combattimento. Il nostro gap a livello internazionale è maggiore dopo l’under 18 e creando un campionato più competitivo e offrendo ai giovani la possibilità di giocare in Eccellenza, si potrebbe crescere più velocemente e gradualmente”.
Cosa farà l’Italia al Mondiale?
“Abbiamo un girone durissimo! Speriamo di passare”.
Carlo, un pronostico per questo finale di campionato…
“Di Mogliano mi piace molto il gioco;  le Fiamme Oro sono l’outsider; il Calvisano è  una squadra di grande esperienza ma quest’anno dico Rovigo. E’ cresciuta tantissimo e quando vuole gioca veramente bene. E poi sono troppi anni che Rovigo aspetta, la città e i tifosi lo meritano tutto”.

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